Le spine del XX congresso

di Alberto Bradanini pubblicato il 27/10/22

L’incoronazione di Xi Jinping come leader della Cina per un altro quinquennio è dietro le spalle. Ora però iniziano i guai, anche per lui. Il XX Congresso del Partito Comunista Cinese ha chiuso i battenti il 22 ottobre, il giorno dopo il neoeletto Comitato Centrale (203 membri e 168 supplenti) ha nominato i sette membri del Comitato Permanente (CP) dell'Ufficio Politico, dove si concentra il potere supremo della Repubblica Popolare, vale a dire, oltre a Xi Jinping, Li Qiang, Zhao Leji, Wang Huning, Cai Qi, Ding Xuexiang e Li Xi. Xi Jinping è confermato quale Segretario Generale del Partito (Pcc) e Presidente della Commissione Militare Centrale, e nella prossima primavera sarà rieletto anche Presidente della Repubblica. 
 

Tra gli uscenti, in aggiunta all’attuale premier Li Keqiang, troviamo Li Zhanshu, Han Zheng e Wang Yang, che vigilia era indicato tra i candidati alla carica di Primo Ministro. Il capo del Partito a Shanghai, Li Qiang, prenderà il posto di Li Keqiang, che uscirà di scena nel marzo 2023. Fanno anche ingresso Cai Qi, Ding Xuexiang e Li Xi, figure minori, legate a Xi. Zhao Leji e Wang Huning, fedelissimi del leader, restano al loro posto per altri cinque anni. Giù per li rami, tutte le cariche che contano, quelle a capo della propaganda, della disciplina nel Partito e della lotta alla corruzione (che serve anche per far fuori i nemici politici) sono assegnate a funzionari devoti al Capo Supremo.


Il giudizio che l’esito del XX Congresso abbia rappresentato un grande successo per Xi Jinping raccoglie il plauso generale, quello ufficiale della stampa interna (il popolo è altra cosa, come anche gli umori nascosti nel Partito) e di quella internazionale. Ma come sempre, il diavolo si nasconde nei dettagli. Vediamo. 

Ignorati i consigli di Deng

Innanzitutto, avanzando alla testa dei Magnifici Sette verso il palco della Grande Sala del Popolo per incontrare i giornalisti, Xi Jinping ha offerto evidenza plastica di esser venuto meno ai suggerimenti di Deng Xiaoping, secondo il quale la dirigenza del Partito avrebbe dovuto rinnovarsi ogni due mandati (restando dunque al potere non più di dieci anni). Tale rottura con il passato (sia Jiang che Hu vi si erano attenuti) peserà molto, nel tempo, sulla sua testa. Deng era persuaso che, se il passaggio di consegne non rispetta tempi prestabiliti, cresce nel paese il rischio di destabilizzazione. Per il Piccolo Timoniere la senescenza anagrafica unita a quella politica è una miccia sempre accesa su un sistema fondato sulla cooptazione dall’alto. Erano lì a dimostrarlo, sia l’esperienza del Partito comunista dell’Unione Sovietica - dove una dirigenza incanutita e distante dal popolo era stata una delle cause strutturali della implosione dell’Urss – sia la stessa Cina, quando nel 1971 Lin Piao aveva tentato il colpo di stato per la mal digerita rimozione quale successore di Mao, che nella sua corretta percezione solo la morte avrebbe potuto detronizzare. 


La Cina si appresta a inaugurare una fase critica, un’insidiosa e permanente stagione dei veleni. Xi Jinping, in cima alla piramide ma più auto-centrato che mai, ha inteso guardare a Mao e al suo iconico culto della personalità, piuttosto che a Deng, il geniale architetto della rinascita cinese (entrambi si stanno forse rigirando nella rispettiva tomba, il primo perché Xi vuole imitarlo, il secondo per la ragione opposta). 

La centralizzazione del potere, è appena il caso di rilevare, porta con sé maggior rischio di errori, minor capacità di correzione e maggior disposizione all’asservimento. Se la sopravvalutazione di sé è ovunque e per tutti una trappola infernale, in un paese di 1,4 miliardi di individui, dove la formazione e l’attuazione delle decisioni del centro costituisce una variabile non sempre controllabile, a dispetto delle adulazioni degli esecutori, essa è ancor più pericolosa. Ne costituiscono evidenza finanche le drastiche misure anti-Covid che hanno causato sacrifici inutili per la popolazione e l’economia del paese, ma non sono riuscite a scuotere l’asinina ostinazione di Xi, che continua a ignorare il diffuso disagio che esse hanno provocato.

Nei mesi/anni a venire, e non solo per l’avanzare dell’età, egli potrebbe veder dileguare quel potere di monarca assoluto di cui sulla carta si è oggi impadronito. Venuta meno quella dimensione collegiale che rifletteva, seppure in modo imperfetto, fazioni e realtà esistenti nel Partito e nel paese, la Cina rischia così di scivolare su sentieri disseminati da incognite. 


Da Deng in avanti, nel Comitato Permanente, ad esempio, è stata sempre rappresentata anche la Lega della Gioventù, che con i suoi 90 milioni di iscritti è il secondo binario e la porta d’ingresso per i piani alti del Partito. D’ora in avanti, seguendo un copione anomalo, il punto di vista di Xi potrà imporsi senza alcun contraltare. Inoltre, con una umiliante defenestrazione di Hu Jintao, grande protettore della Lega della Gioventù, immortalata per di più in mondovisione, Xi Jinping mostra un’inutile protervia, che non verrà dimenticata. 

Che Xi Jinping sia o meno consapevole di tale deriva, nulla tuttavia giustifica eventuali ottimismi, per la Cina, per lui e per il mondo. D’ora in avanti, avendo accentrato su di sé tanto potere e senza limiti di tempo, dopo aver cambiato Costituzione e Statuto del Partito, egli dovrà guardarsi le spalle. Nei sorrisi che offrirà alle telecamere e nelle quotidiane lusinghe dei fedelissimi, Xi cercherà la prova del tradimento, divenendo schiavo del sospetto, alla ricerca di un’incondizionata lealtà di cui mai sarà certo. 

Se dunque il XX Congresso ha confermato la presa di Xi Jinping sul sistema cinese, non per questo diminuiscono le difficoltà di gestire un paese immenso, per di più nell’attuale turbinio di crisi, tra rallentamento economico, frustrazioni anti-Covid, frizioni con l’Occidente, la questione di Taiwan e gli equilibrismi tra Usa e Russia. 

Taiwan

Un breve cenno al tema Taiwan, uno dei più caldi della lista: se la riunificazione con la madrepatria è stata ora inserita nella Costituzione, essa resta nondimeno di natura squisitamente politica. La presidente taiwanese Tsai Ing-wen, commentando in proposito, ha rilevato che l’isola non rinuncerà mai sulla sovranità e al suo sistema democratico, aggiungendo che la prospettiva di un confronto militare tra Taiwan e Cina non è un'opzione per nessuna delle due parti. Con un linguaggio sostanzialmente accomodante, Taipei suggerisce di affrontare le divergenze in modo pacifico e pragmatico, aspettandosi anche da parte di Pechino una postura positiva. 
 

Xi aveva rilevato in precedenza che il principio un paese e due sistemi, applicato a Hong Kong, consentirebbe anche a Taiwan di vivere in un sistema capitalista, diversamente dal resto della Cina, una sottolineatura che però non convince la maggioranza dei taiwanesi. Il leader cinopopolare afferma che intende lavorare a una riunificazione pacifica con l’isola (e il florido rapporto economico bilaterale, più proficuo per Taipei che per Pechino, sarebbe lì a dimostrarlo), pur ribadendo che la Cina si riserva di prendere ogni necessaria misura a questo fine, ivi compreso l’eventuale ricorso all'uso della forza se le circostanze lo richiedessero (qualora, in buona sostanza, Taiwan si avventurasse a dichiarare l’indipendenza formale (un proposito quanto mai azzardato che la dirigenza dell’isola non ha mai evocato, poiché di tutta evidenza Taiwan indipendente lo è già). 
 

Quanto all’intento, cui Xi ha fatto riferimento con insistenza, di investire maggiori risorse finanziarie, scientifiche e umane nella creazione di un potenziale militare di livello mondiale, la motivazione principale è quella di dover affrontare il percepito pericolo proveniente dal mare (non più dalle frontiere terrestri come al tempo del rivale geopolitico sovietico), in primis dagli Stati Uniti, un pericolo cresciuto ancor più con la creazione dell’Aukus (Australia, Regno Unito, Usa) e gli intenti della Nato di puntare, divenendo così azzardatamente globale, al contenimento della Repubblica Popolare, situata all’altro capo del mondo.

Il nodo dell'economia

Quanto all’economia, non sembra che vi siano alle viste significativi cambiamenti, se non un’attenzione ancora maggiore a una presenza estesa e competente dello stato. Una dichiarazione d’intenti che accresce il fastidio del capitalismo neoliberista occidentale, centrato sul potere corporativo, che non ha mai abbandonato la speranza di mettere le mani sul paese attraverso le insidie della grande finanza internazionale a guida americana. La Cina resta in definitiva un paese sviluppista, centrato sulla crescita economica guidata dal governo, nella quale il mercato ha un ruolo importante, ma non prioritario. Le scelte strategiche restano pertinenza dello stato, i settori principali appartengono allo stato e le grandi aziende del paese sono pubbliche. Quelle private, alcune anche di notevoli dimensioni, devono comunque allinearsi alle priorità stabilite dal Governo-Partito.
 

Ancor più dopo la nuova guerra fredda dichiarata a suo tempo da D. Trump, la necessità di essere autosufficiente è per la Cina importante. Essa è però consapevole di dipendere ancora dall’Occidente in molti settori. La sua strategia non è però basata sul decoupling, che costituisce semmai la costante tentazione dell’Occidente-Usa. La tecnologia rimane fondamentale per tutti. Controllandone i gangli cruciali, gli Usa cercano di contenere l’ascesa cinese, rinunciando a collaborare nella costruzione di un mondo migliore, pacifico e in equilibrio. Si tratta d’altra parte di un’arma spuntata, alla luce dell’autonomia che Pechino conquista ogni giorno di più. Infine, ed è questo un aspetto poco meditato da un Occidente ingiustificatamente auto-centrato, la Cina è il paese dominante in seno al gruppo dei Brics - il cui Pil aggregato si avvicina a grandi passi a quello del G7 (oggi intorno alla metà di quello mondiale) - che nei prossimi decenni costituirà l’asse portante di un  mondo compiutamente multipolare.


Alberto Bradanini è un ex-diplomatico. Tra i diversi numerosi incarichi ricoperti, è stato Console Generale a Hong Kong (1996-98), Ambasciatore a Pechino (2013-2015) e a Teheran (2008-2012). È attualmente Presidente del Centro Studi sulla Cina Contemporanea. È autore di saggi e libri, tra cui "Oltre la Grande Muraglia" Ed. Bocconi 2018; "Cina, lo sguardo di Nenni e le sfide di oggi", Ed. Anteo 2012 e "Cina, l'irresistibile ascesa”, Teti Editore, febbraio 2022