Tra incudine tedesca e martello cinese

di Alberto Bradanini pubblicato il 24/08/18

La preoccupazione per alcuni aspetti dell’espansione della Cina nel mondo sta crescendo a Washington e in altre capitali occidentali, che cercano di correre ai ripari davanti a quella che viene percepita come un’inquietante invadenza da parte cinese. È indubbio che il fattore C-Cina non può essere ignorato in nessun settore di attività, sia essa di natura politica o economica, e in nessun angolo del mondo. Secondo la destra d’oltreatlantico, la forza economica e politico-militare della Repubblica Popolare, unita al suo accresciuto soft power, avrebbe già raggiunto il livello di guardia.

Il governo cinese ha di recente istituito un nuovo dipartimento incaricato di coordinare le attività di promozione della Cina nei media internazionali e degli altri paesi, che guardano con apprensione alla forza di penetrazione economica e culturale della Repubblica Popolare.

In Asia, Sud America, Africa, Australia o Nuova Zelanda, ovunque crescono le ansie per il peso sistemico dei capitali cinesi, che d’altro canto per ragioni intuibili sono quanto mai benvenuti. Mentre gli Stati Uniti rimangono il principale alleato sotto il profilo della sicurezza per molti paesi, la Cina è diventata il primo partner commerciale e uno dei principali anche per gli investimenti in entrata, in uno scenario di gerarchia a duplice presa, da una parte politico-militare a guida americana, dall’altra economico-commerciale a crescente guida cinese.

Il surplus di Berlino e il "Cavallo di Troia" cinese in Europa

In Europa, nel febbraio scorso l’allora Ministro degli Esteri tedesco ha affermato che la Cina cercherebbe “di minare sistematicamente l'unità dell'Unione Europea attraverso la politica del bastone e della carota”. Secondo Sigmar Gabriel, Pechino userebbe ad esempio la Belt and Road Initiative (Bri) “per promuovere un sistema di valori diverso da quelli occidentali, non fondato sulla libertà, la democrazia e i diritti umani individuali". Non si può non rilevare in proposito che Gabriel dovrebbe fare tale raccomandazione innanzitutto ai dirigenti di Mercedes-Benz, BMW, Volkswagen e delle migliaia di aziende tedesche, fortemente sostenute dal suo governo, per le quali pecunia non olet, dal momento che l’interscambio Germania-Cina sfiora i 200 miliardi di euro, con un avanzo a favore della Germania pari a quasi 20 miliardi (unico paese Ue in surplus, se escludiamo Finlandia e Irlanda, del tutto marginali).

Non manca poi chi sostiene che i rapporti privilegiati tra alcuni paesi dell'Europa orientale e la Cina farebbero parte della strategia di Pechino volta a dar vita a una sfera di influenza cinese nel cuore eurasiatico con l’ulteriore obiettivo di creare divisioni nel continente europeo (semmai ve ne fosse bisogno, andrebbe aggiunto). Una tesi questa, in ogni caso, poco convincente, dal momento che Pechino nutre semmai l’interesse strategico opposto – anche se per ora velleitario –, quello di vedere un giorno materializzarsi una disgiunzione o almeno una diversificazione di interessi tra un’Europa unita, e politicamente rilevante, e gli Stati Uniti.

L’invasione cinese – secondo tale lettura - minerebbe la stabilità dell'ordine internazionale, basato oggi su regole occidentali, indebolendo alleanze e leadership degli Stati Uniti, e favorendo scenari politico-economici favorevoli a una diversa configurazione dei rapporti internazionali. Si potrebbe rilevare in proposito che un diverso ordine economico internazionale potrebbe persino convenire alle classi escluse dalla ricchezza nei paesi emergenti e sempre più anche in quelli avanzati.

Se negli Stati Uniti il dibattito sulle strategie da adottare per rispondere all’offensiva cinese si va intensificando, il politologo e professore ad Harvard, Joseph Nye, avverte che le democrazie occidentali dovrebbero tuttavia "fare attenzione a non reagire in modo eccessivo" e che la miglior risposta all’attivismo cinese sarebbe “la strategia dell’apertura".

Secondo altri, affidarsi solo agli effetti benefici, ma di lungo periodo, della strategia dell'apertura, rappresenterebbe un rischio eccessivo per le democrazie liberali, data la vulnerabilità di queste ultime rispetto alle attività poliedriche e a tutto campo del Partito Comunista Cinese. Per affrontare la sfida con qualche chance di successo le democrazie liberali dovrebbero invece concertare una strategia muscolare, tenendo presente che l’avversario dispone di grandi risorse e che il teatro d’azione è oggi favorevole alla Cina, che potrebbe contare paradossalmente sul sostegno della stessa Amministrazione Trump, la quale con la sua condotta erratica sta minando la tradizionale leadership americana nel mondo e allontanando dall’America persino i suoi più stretti alleati.

Altri fanno notare che se la sfida posta dalla Cina non è banale, essa però non andrebbe nemmeno ingigantita, poiché gli interessi e i sistemi di alleanze intrecciate tra i paesi africani, asiatici, europei, oltre che quelli diretti tra Stati Uniti e Cina, offrono ampi spazi di possibile compromesso, alla luce dei multiformi interessi delle nazioni coinvolte.

È indubbio che la Cina raccolga grandi benefici dagli attuali scenari politici ed economici internazionali. Il predominio dell’ideologia iper-liberista, impostasi in Occidente a partire in particolare dal 1975 ed ora consolidatosi, costituisce un palcoscenico funzionale agli interessi cinesi. Mentre da noi il governo dell’economia è stato delegato ad un’oligarchia finanziaria e industriale transnazionale, che impone l’ideologia del profitto per pochi e a tutti i costi, quando necessario anche attraverso la mobilitazione delle organizzazioni internazionali, in Cina la situazione è (almeno per ora) diversa. Quella che l’Occidente chiama governance, vale a dire una gestione privatista della politica economica, senza un’efficace rappresentazione democratica, in Cina prende il nome di governo dell’economia ed esso è saldamente nelle mani della sfera pubblica, vale a dire del Partito Comunista, il quale stabilisce le priorità anche economiche del paese sulla scorta di valutazioni politiche e nell’interesse della maggioranza (certo, dopo aver salvaguardato, è inevitabile, i privilegi della classe di stato).

Libero commercio e ruolo dello stato

La presenza dello Stato nell’attività economica è in Cina solida e capillare, rappresentando essa una delle chiavi di successo della sua straordinaria crescita degli ultimi 40 anni. L’Europa vede invece lo Stato in ritirata persino dai settori monopolisti, lasciati inspiegabilmente nelle mani di speculatori privati che per profitto non esitano a mettere a repentaglio la vita stessa dei cittadini, come abbiamo appreso dai recenti disastri italiani. Se in Europa finanche le leve fiscali e monetarie sono oggetto di un’irresponsabile cessione di sovranità statuale senza le necessarie garanzie di rappresentanza democratica (la Commissione o la Banca Centrale Europea non rispondono dei loro errori ai cittadini europei), in Cina la tutela degli interessi economici è saldamente nella mani della sfera politica, che non è certo esente da errori (si pensi all’ambiente) o deviazioni (in primis i privilegi dei vertici del Partito), ma che opera tenendo la barra delle priorità sull’interesse pubblico.

D’altro canto, il dogma del libero commercio è oggi difeso dalla dirigenza cinese senza alcuna attenzione ai riflessi sul mondo del lavoro (tristemente illuminante il discorso di Xi Jinping a Davos nel gennaio 2017), e la ragione fondamentale è da ricercarsi nella struttura della produzione a livello internazionale, che assicura alla Cina costi di produzione assai minori rispetto all’Occidente, che sono sfruttati da Pechino per accumulare ricchezza, in attesa che in futuro questa possa essere meglio distribuita tra i cittadini. Nessuno si meraviglierebbe, però, se di qui a qualche anno, quando le ragioni di scambio dovessero cambiare, la Cina tornasse ad abbracciare come un tempo posizioni protezionistiche.

Secondo alcuni, le nazioni europee accomodanti nei riguardi della Cina sarebbero quelle dell’Est, Polonia, Ungheria, Croazia, Slovenia, Romania e, fuori dall’Ue, la Turchia. In realtà, tale analisi oblitera la posizione assai più criticabile della Germania, che trae grandi benefici dal suo rapporto mai rivendicativo con la Cina, facendo pagare il costo degli squilibri commerciali dell’Ue nel suo insieme (circa 170 miliardi di disavanzo ogni anno) agli altri paesi, in specie quelli dell’eurozona, e tra questi l’Italia, che registra un deficit annuale consolidato tra i 16 e i 19 miliardi di euro. La voce della Commissione Europa è in proposito pressoché assente, dato il dominio tedesco su di essa e sui funzionari europei che avessero il coraggio di sollevare la questione. E ciò che sorprende ancor più è l’assenza di reazione degli stessi paesi europei danneggiati, chiusi a tenaglia tra l’incudine tedesca (in particolare contro gli indebitati paesi del Sud) e il martello cinese (che minaccia ritorsioni o una minore generosità marginale).

Nell’insieme possiamo dunque rilevare che l’attuale disordine economico-produttivo-finanziario occidentale, che arricchisce i ricchi e impoverisce i già poveri, risulta funzionale agli interessi cinesi.

Su un altro fronte, alcuni avvertono segnali di smottamento delle alleanze occidentali a guida americana: la Germania starebbe costruendo da tempo il suo feudo economico-finanziario con l’infernale strumento dell’euro che spolpa le nazioni del Sud, aspettando l’occasione per affrancarsi del tutto dal Grande Fratello; in Turchia cresce il malessere per le insidiose giravolte della politica americana in Medio Oriente; la Grecia, spremuta all’osso dalla cosiddetta solidarietà Ue, si affida alle infusioni di capitali cinesi per rivitalizzare la propria economia (porto del Pireo) e nel giugno 2017 ha fatto sintomaticamente mancare il suo voto su una risoluzione alle Nazioni Unite in tema di diritti umani in Cina; il Regno Unito punta sui legami con la Cina in vista della sua imminente uscita dall'Ue; in Asia-Pacifico (Cambogia, Laos, Filippine e Myanmar...) le ombre di possibili ritorsioni economiche di Pechino impediscono all'Associazione del Sud-Est asiatico (ASEAN) di esprimere una posizione unitaria sulle dispute territoriali nel Mar Cinese Meridionale; il lancio della Bri (Belt and Road Initiative) infine, malgrado qualche formale presa di distanza, mobilita risorse e iniziative anche da parte dei paesi alleati degli Stati Uniti (molti di questi sono divenuti membri dell’Aiib, la Banca asiatica delle infrastrutture a guida cinese). In buona sostanza, agli occhi di tante nazioni le ambizioni muscolari della Cina, il suo sistema politico autoritario e gli obiettivi occulti dei suoi capitali all’estero non costituiscono una ragione sufficiente per rinunciare ai benefici derivanti da buone relazioni con la RPC.

Si comprendono dunque le ragioni d’inquietudine della destra americana, secondo la quale tale strategia cinese, silente ma efficace, non verrebbe sufficientemente contrastata. Sul piano politico-militare, ad avviso degli ambienti radicali americani, G.W. Bush si sarebbe distratto in Medio Oriente con guerre minori (Iraq e Afghanistan prima, e poi Siria e Libia) che hanno visto Pechino spettatore contento e distante, rispetto alla sfida per il predominio del mondo posta dalla Cina.

Crisi dell'impero USA, se Trump finisce sotto accusa

Secondo tale sensibilità, occorrerebbe mettere in discussione il significato di ascesa pacifica della Cina, un’ascesa che solo sulla carta si presenterebbe in termini di coesistenza pacifica, ma che invece nasconderebbe mire pesantemente espansioniste.

Vediamo qui una rappresentazione plastica – riteniamo di aggiungere – della difficoltà per quegli ambienti americani che traggono potere e redditi dal dominio americano sul mondo a fare i conti con la caducità degli eventi storici e dunque anche degli imperi, assoluti e meno che siano, tutti soggetti all’usura del tempo. La posizione critica della destra è poi rivolta in forma specifica contro Donald Trump, il quale è accusato di aver messo masochisticamente in discussione alleanze consolidate con diversi paesi, in primis quelli europei, per favorire alcuni settori economici contro altri (dazi su auto, acciaio e alluminio dall'UE), lo scarso impegno sul TTIP (Tran-Atlantic Trade and Investment Partnership) e poi il ritiro dal TPP (Trans-Pacific Partnership), – in merito ai quali occorrerebbe invece ringraziare il destino e una ritrovata, benedetta eterogenesi dei fini – e dall’accordo di Parigi sul clima, una politica ambivalente nei riguardi della Russia e altro ancora.

È curioso come molti alleati degli americani vedano proprio nell'Amministrazione Trump, e non nella Cina, la nazione che metterebbe in pericolo la stabilità dell’ordine politico ed economico internazionale.

Sebbene gli alleati di Washington nei diversi continenti siano diversamente esposti nei riguardi della Cina, la destra americana reputa che le ansie per le attività indesiderabili da parte cinese siano le stesse, e che dunque le risposte debbano essere le stesse. Il sostegno americano dovrebbe di conseguenza essere forte e coerente, attraverso consultazioni politiche e scambi di esperienze e intelligence (che gli americani interpretano però a senso unico), tenendo presenti gli interessi dei paesi amici, e per alcuni sarebbe una delle rare volte negli ultimi decenni.

Già ora d’altra parte, Stati Uniti, Australia, Canada, Germania e Regno Unito hanno iniziato a esaminare con cura gli investimenti cinesi, soprattutto nei settori ad alta tecnologia. Negli Stati Uniti, il comitato per gli investimenti esteri (CFIUS) ha di recente respinto l'acquisizione cinese di Lattice Semiconductor, un produttore di circuiti integrati avanzati. Londra intende supervisionare un centro di ricerca di Huawei situato nel Regno Unito. Berlino ha bloccato nel 2016 l'acquisizione cinese del produttore di apparati per chip Aixtron, e ha fatto sapere che impedirà altre acquisizioni di tecnologia. Il segretario generale della Nato, Rasmussen, ha infine lanciato un allarme sulla debolezza dei sistemi normativi europei in tema di investimenti esteri su tecnologie sensibili, sottolineando la necessità di un coordinamento interalleato.

Quanto poi all’Ue è sorprendente come gli appelli ai paesi membri che dovrebbero esprimere la capacità europea di parlare con una sola voce emergano a singhiozzo, e solo quando sono a rischio gli interessi dei paesi forti. L’Ue dovrebbe invece parlare ad una voce innanzitutto sul riequilibrio del commercio, che deve beneficiare tutti i paesi membri e non solo la Germania e i suoi satelliti. L’Ue – è sempre la destra Usa a suggerirlo – dovrebbe contenere investimenti e altre attività cinesi in Europa orientale per non indebolire l'unità (quale?) dell'Europa e per mantenere la stabilità dell’attuale ordine liberale (che ahimè sta invece distruggendo le classi medie dell’Occidente).

La visione della destra americana meriterebbe certo un’analisi più ampia. In questa sede ci limitiamo a rilevare che se gli Stati Uniti intendono davvero portare gli alleati verso una posizione comune su taluni profili dell’espansione cinese nel mondo, dovrebbero cominciare a modificare le politiche iper-liberiste e di tutela dell’oligarchia finanziaria anglosassone di cui sono campioni, offrendo ai paesi amici e neutrali una concreta prospettiva di crescita e di più equa redistribuzione della ricchezza prodotta. Non temiamo smentite tuttavia se affermiamo che nulla di tutto ciò avverrà, poiché a dettare tali ipotetiche politiche sarebbero gli stessi che ne subirebbero il danno maggiore.

A noi italiani non resta che tutelarci da soli, studiando bene questi complessi meccanismi e, in attesa che la storia ci riconsegni la sovranità della politica monetaria ed economica nazionale che abbiamo inspiegabilmente conferito ad istanze extranazionali (Banca Centrale Europea e Commissione Ue), far sentire forte la nostra voce a Bruxelles e Francoforte a difesa dei nostri legittimi interessi anche sulla politica Ue verso la Cina.