Roma cavallo di Troia di Pechino?

di Michelangelo Cocco pubblicato il 22/10/18

 



“L’Italia gialloverde e il cavallo di Troia cinese per entrare in Europa” titola la Repubblica un articolo pubblicato ieri.
Dell’esecutivo Lega-M5S questa volta il quotidiano processa l’intenzione di “diventare il primo paese fondatore dell’Unione europea e il primo membro del G7 a firmare il memorandum d’intesa sulla via della Seta” (Bri), l’iniziativa infrastrutturale-commerciale-geopolitica lanciata cinque anni fa dal presidente cinese Xi Jinping.


La Repubblica sorvola sul fatto che i governi che si rifiutatano di sottoscrivere quel documento lo fanno per evidenti rivalità geopolitiche (Stati Uniti, Giappone, Gran Bretagna) o obiettivi economici (Germania) non, ipso facto, condivisibili dall’Italia.


In particolare Berlino – rappresentando egregiamente gli interessi dei suoi colossi della chimica, dell’automotive, della meccanica... – da decenni ha instaurato un rapporto privilegiato con Pechino (che l’ha portata, dal 2016, a superare gli Usa diventando il primo partner commerciale della Cina, con la quale, nel 2017, ha registrato un interscambio di 186 miliardi di euro) grazie al quale non ha bisogno di passare per i nuovi canali della Bri che, anzi, potrebbero rendere la relazione Pechino-Berlino meno esclusiva (ad esempio, con l’apertura di una rotta di commercio marittimo che approdi nel porto di Trieste facendo un po’ di concorrenza a quello di Amburgo).

In questo senso, è sintomatico che a sostegno della tesi dell’Italia cavallo di Troia della Cina nell’Ue la Repubblica citi le critiche a Roma del tedesco MERICS, think tank finanziato da una fondazione “indipendente” nella quale sono rappresentati alcuni tra i principali gruppi industriali teutonici.


Quando il sottosegretario al MISE Geraci – rivendicando la scelta di andare a cercare finanziamenti a Pechino - dichiara a Bloomberg che “abbiamo 28 diverse economie con 28 interessi diversi”, fa una constatazione lapalissiana e, nello stesso tempo, mette in evidenza una delle grosse contraddizioni di una Unione che è soltanto monetaria, mentre sugli altri dossier prevalgono – e si scontrano – gli interessi nazionali.
Non è un caso che l’unico paese a firmare il protocollo d’intesa sulla Bri con la Cina sia stato, finora, la Grecia massacrata dai fallimentari piani di aggiustamento strutturale made in Germany.


E la difesa dei diritti umani in Cina?, si chiede la Repubblica. Anche su questo punto l’ipocrisia tedesca è stridente, con i suoi governanti che a ogni vertice bilaterale riferiscono di aver sollevato in privato la questione con la “controparte” cinese, ottenendo in cambio insignificanti gesti simbolici - come, recentemente, la consegna della moglie di Liu Xiaobo, Liu Xia – mentre il business procede, as usual.

Nonostante l’immagine suggestiva evocata dal titolo di Repubblica, la Cina non ha bisogno di un cavallo di troia gialloverde per entrare in Europa. Gli investimenti cinesi nel Vecchio continente si fanno largo con la forza di un’economia diretta dallo Stato che ha dimostrato di essere capace di innovare e di imporre i suoi brand nel mercato dei consumi di massa e che l’ha portata nel 2017 a realizzare investimenti esteri diretti (OFDI) pari a 30 miliardi di euro nell’Europa a 28.

Il nuovo governo italiano sembra aver intuito la portata della visione messa in campo con la Bri da Pechino, che mira a trovare ulteriori canali di sbocco per le sue merci in uno spazio, come quello euroasiatico nel quale, forse, anche l’Italia può svolgere un ruolo.

Se nelle prossime settimane, con l’annunciata missione in Cina del vice presidente del Consiglio Di Maio, Roma romperà il fronte Ue-G7 dell’opposizione alla Bri, segnerà effettivamente una discontinuità rispetto ai precedenti governi - preoccupati soprattutto di obbedire a Washington e di non contraddire i desiderata dei paesi forti del nord Europa - in una fase in cui quello attuale, nei prossimi mesi, avrà probabilmente difficoltà a rifinanziare il debito pubblico per la fine del programma di acquisti dei titoli di Stato da parte della BCE (il fondo sovrano cinese CIC si sarebbe offerto di acquistarne una porzione non specificata).


Soprattutto, a un paese esportatore come l’Italia, liberarsi dall’ipocrisia anti-Bri potrebbe permettere di recuperare qualche posizione rispetto alla Germania nelle nuove rotte commerciali e negli investimenti infrastrutturali, anche in paesi terzi, che si apriranno con lo sviluppo della Nuova via della Seta.

Tutto ciò tuttavia rimanda alla questione dei rapporti di forza tra Stati e su questo chi scrive condivide la valutazione di Repubblica secondo cui il memorandum d’intesa che Di Maio si appresterebbe a siglare potrebbe essere “un Pdf che Pechino spedisce fatto e finito, prendere o lasciare. Ammesso e non concesso che il governo gialloverde abbia chiaro cosa vuole ottenere, la Cina ce l'ha chiarissimo”.


Per non finire tra l’incudine tedesca e il martello cinese non basta l’attivismo di un sottosegretario, è necessario che lo Stato si attrezzi con strutture ad hoc, collaborando con i centri di ricerca e l’accademia, non per combattere contro inesistenti cavalli di Troia, ma per affrontare uno dei fenomeni più rilevanti del XXI secolo: l’ascesa della nazione cinese, con il suo corollario di strategie e alleanze da ridefinire.


Qui, come su tanti altri dossier, il governo gialloverde dovrà dimostrare con i fatti di essere capace non soltanto di parlare di interessi nazionali, ma anche di difenderli.