Deficit con la Cina, l'Ue si svegli

di Alberto Bradanini pubblicato il 13/07/18

 

La guerra dei dazi tra Stati Uniti e Cina sarà lunga e dolorosa. Nel commercio bilaterale, gli Usa lamentano un disavanzo strutturale di 375 miliardi di dollari. Pechino grida alla violazione degli accordi stipulati in sede Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC) che sovrintendono al funzionamento del commercio internazionale. Alcuni giorni fa, la decisione di Washington aveva colpito per 34 miliardi di dollari prodotti cinesi importati e la ritorsione cinese ha imposto dazi corrispondenti per 34 miliardi di dollari sulle merci americane importate dalla Cina. I dazi statunitensi hanno preso di mira 818 prodotti provenienti dal gigante asiatico, innanzitutto veicoli elettrici, torni industriali e altri componenti per macchinari utilizzati nelle fabbriche americane. Vengono per ora graziati gli smartphone, per proteggere la multinazionale Apple che si serve delle catene di montaggio cinesi per assemblare i suoi prodotti. La rappresaglia cinese ha invece puntato su circa 700 prodotti, soprattutto agro-alimentari, provenienti dagli stati trumpiani del Mid-West.

In aggiunta alle misure sopra riportate, l’11 luglio scorso, in un’escalation che sembra non aver fine, Trump ha annunciato ulteriori dazi del 10% per un valore complessivo di 200 miliardi di dollari su prodotti di largo consumo (abbigliamento, tonno, salmone, pneumatici, valigie, mobili, apparati elettrici, componenti per telefoni e TV e altro ancora), con riflessi sui prezzi e dunque sull’inflazione domestica, con ripercussioni a più ampio raggio dai contorni inediti. Vedremo nei prossimi giorni quali saranno le contro-misure cinesi, tenendo conto che Washington si aspetta da Pechino un cambiamento di rotta – e non certo ritorsioni - sulle illegittime pratiche commerciali cinesi, sui furti di proprietà intellettuale e sul tema dell’accesso al mercato cinese di beni e servizi americani.

SE SALTANO I CARDINI DEL COMMERCIO INTERNAZIONALE

Lo scontro tra le due nazioni sta prendendo la strada delle rivalse reciproche, in grado di mettere a repentaglio i cardini fondamentali che sovrintendono al funzionamento del commercio internazionale, obiettivo che, secondo alcuni, sarebbe proprio quello perseguito dal Presidente americano, il quale in un crescendo di annunci minaccia ora di voler colpire altri prodotti cinesi per 450-500 miliardi di dollari, tendenzialmente equivalenti al totale delle importazioni americane dalla Cina. E nei prossimi giorni Washington ha già deciso di applicare ulteriori dazi per 15 miliardi di dollari su tecnologie e beni digitali cinesi, allo scopo parallelo di ritardare l’avanzare della locomotiva asiatica nel settore hi-tech, nel quale gli Stati Uniti intendono difendere il più a lungo possibile la loro attuale leadership mondiale. Nessuno conosce tuttavia quale sarà l’impatto di tali misure sul mercato, poiché da una parte i costi di produzione di molti di questi beni sono in Cina talmente bassi che potrebbero incidere poco sulla decisione finale del consumatore americano, e dall’altra l’effetto sostituzione potrebbe spostare la parte di deficit americano su analoghi prodotti provenienti da altri paesi emergenti, Vietnam, Sud-Est asiatico, Messico, con effetti minimi sulla riduzione del disavanzo americano complessivo.

La teoria economica consolidata afferma che il commercio internazionale deve poter generare benefici, anche se tendenziali o indiretti, per tutte le parti coinvolte, evitando di destabilizzare altre economie e prevenendo guerre commerciali come quelle cui stiamo assistendo. Nel caso in esame, gli Stati Uniti non dovrebbero dimenticare i vantaggi che traggono dal commercio estero anche quando esso è deficitario (e non solo con la Cina): una bassa inflazione, maggiore benessere per i cittadini americani e vantaggi di ritorno, poiché i proventi del commercio bilaterale vengono spesso reinvestiti in debito pubblico degli Stati Uniti sostenendone l’economia e la valuta (11% del debito totale americano si trova ad esempio in mani cinesi). In base alle stime del Fondo Monetario Internazionale, un aumento medio del 10% dei prezzi mondiali dei beni importati ridurrebbe la domanda globale dello 0,25-0,5%. Su 100 miliardi di interscambio sino-americano, l’impatto dei dazi sulla crescita cinese sarebbe dello 0,1-0,3% e un po’ meno su quella statunitense, anche se i dati rimangono incerti e non è chiaro dove finirà la corsa delle rispettive ritorsioni.

La Bank of America reputa che nel breve periodo potrebbe esserci un’ulteriore escalation della guerra commerciale, ivi compresa una significativa ripercussione sulla crescita mondiale, mentre nel lungo periodo potrebbe prodursi una diversa ripartizione delle catene di produzione e distribuzione di beni a livello globale, soprattutto tra la Cina (oggi la fabbrica del mondo) e l’Occidente. Va infine tenuto presente che i dazi americani colpiscono anche aziende di altri paesi/territori fornitori della Cina, Giappone, Corea del Sud e Taiwan (e gli stessi Stati Uniti) nell’intricata catena produttiva globalizzata, in un intreccio di riverberi di varia natura, per il momento difficile da valutare. 

Sul piano più generale, va rilevato che l’ambizione del leader cinese Xi Jinping in questa fase di sviluppo economico è duplice, da una parte trasformare la Cina in una nazione indipendente dalle tecnologie straniere e dall’altra riscrivere le regole della cyber governance globale, su cui si gioca in gran parte il dominio futuro delle tecnologie di punta, regole finora dettate dall’Occidente. In parallelo, Pechino intende imporre sul mercato quegli standard tecnici che anche le aziende straniere sarebbero obbligate a rispettare. I dati della cyber technology dovrebbero inoltre essere conservati su dispositivi/server nazionali non trasferibili senza autorizzazione del governo, ed operare su infrastrutture e fornitori domestici. Per una logica paradossale, agli occhi di Pechino questo ambizioso percorso sostitutivo potrebbe trovare un alleato indiretto proprio nelle politiche del Presidente Trump miranti allo smantellamento del sistema di relazioni economiche internazionali centrato sull’OMC, a favore di accordi bilaterali. Pechino dunque ringrazia anche se, pur accusando a parole l’America di bullismo economico, non intende esacerbare il contenzioso con toni eccessivi, per non intaccare la catena industriale globalizzata che oggi gioca a suo favore, ben sapendo che tra i due è la Cina ad aver tutto da perdere e poco da guadagnare. 

In tale scenario, Pechino non nutre troppe illusioni che, a dispetto di qualche dichiarazione di fastidio da parte europea o americana, sia possibile portare l'Ue dalla sua parte contro le politiche unilaterali del presidente Trump. Eppure rimane forte la tentazione di immaginare che la disputa Ue-Usa possa creare un cuneo di diffidenza tra gli alleati atlantici e favorire una crescente cooperazione Ue-Cina, per il momento a sostegno della salvaguardia dell’ordine commerciale internazionale che oggi porta benefici alla Cina e all’Europa (e in Europa soprattutto alla Germania e ai suoi satelliti, veri decisori delle politiche commerciale dell’Unione). In una recente intervista alla CNN il Segretario di Stato Mike Pompeo ha infatti osservato che la tradizionale alleanza basata su interessi e valori tra Europa e Stati Uniti rimarrà forte nonostante alcune divergenze su politica monetaria e commerciale, e sulle migrazioni. A suo avviso, gli alleati transatlantici “fanno sogni diversi, ma dormono nello stesso letto”.

IL DISAVANZO DELL'UNIONE E IL SURPLUS DELLA GERMANIA

Sia la Cina che l'Europa a guida tedesca ritengono che il libero scambio sia la locomotiva della crescita economica globale e che il protezionismo commerciale conduca al caos e alla recessione. Se infatti l’attuale presa di distanza americana dai meccanismi commerciali multilaterali (in specie l’OMC) dovesse consolidarsi, ciò lascerebbe spazio a Cina ed Europa per una riforma delle norme internazionali sulla base dei reciproci interessi, e a quel punto gli Stati Uniti dovrebbero contare solo sulle loro forze per tutelare i propri, avendo contro non solo i rivali nemici, ma anche i rivali amici. 

Va aggiunto che la politica di Trump sembra voler colpire con la medesima scure, anche se con diversa intensità, sia la Cina che l’Unione Europea (da lui giudicata, sotto il profilo delle sofferenze commerciali americane, solo un po’ meno colpevole, dal momento che il relativo disavanzo è di soli 150 miliardi di dollari), mettendo la Germania nel mirino. Se la logica di Trump ha un senso – e molti analisti reputano che, malgrado la brutalità dei suoi interventi, la sua attenzione sugli eccessivi disavanzi commerciali sia giustificata - c’è da chiedersi come mai l’Unione Europea, che pure con Pachino soffre un disavanzo strutturale di circa 200 miliardi di dollari, non osi nemmeno sollevare il tema con le Autorità cinesi, per favorire un graduale rientro di tale squilibrio. Secondo alcuni la riluttanza europea ad affrontare la questione è legata ai rischi di ritorsione da parte di Pechino su tanti aspetti delle relazioni economiche e finanziarie blaterali. Va tenuto presente tuttavia, che chi avrebbe più da perdere in una ipotetica guerra commerciale Ue-Cina, sarebbe proprio quest’ultima.

E se si getta lo sguardo sui dati del commercio Ue-Cina emerge che tra i paesi europei i soli che registrano un avanzo commerciale sono l’Irlanda (1,3 miliardi di euro), la Finlandia (1,4 miliardi di euro) e, soprattutto, la Germania (almeno 20 miliardi di euro). L’accomodante politica europea nei riguardi della Cina è dunque governata dagli interessi della Germania, principale partner Ue di Pechino (se si includono i beni che transitano dal porto olandese di Rotterdam, l’interscambio sino-tedesco supera i 200 miliardi di euro), la quale non ha dunque alcun interesse ad esacerbare i rapporti con Pechino, una politica questa che toglie ogni anno significative quote di mercato e di lavoro alle imprese degli altri partner europei, tra cui l’Italia.

Il direttore della politica commerciale Usa, Peter Navarro

Con ciò non s’intende affermare che l’Ue dovrebbe seguire il Presidente Trump sulla strada muscolare dei dazi. Tuttavia gli squilibri commerciali - quando sono eccessivi e strutturali, come quelli Cina-Stati Uniti e, in minor misura, Ue-Cina – devono essere gradualmente ridotti, poiché essi destabilizzano, distruggono lavoro e riducono le prospettive di crescita delle economie deficitarie. Del resto molti accordi commerciali internazionali (ivi compresi quelli stipulati in sede OMC) considerano legittima l’adozione di misure di contenimento quando tali squilibri superano una certa soglia. È evidente che il forte avanzo commerciale complessivo della Germania in termini di Pil (8,5% nel 2017), da anni sistematicamente superiore al 6% - parametro questo che per la Commissione Ue e la Banca Centrale Europea non andrebbe superato - danneggia pesantemente gli altri paesi dell’Eurozona, compreso il nostro.

La disattenzione della Commissaria Ue al Commercio, Cecilia Malmström - una liberale svedese, iper-liberista in economia e assai sensibile agli interessi dei paesi del Nord, Germania in testa – è dovuta ai pesanti condizionamenti di Berlino sulle istituzioni europee, in ragione della forza dell’economia e della finanza tedesche nella gestione dell’Euro. Su tale linea di pensiero, alla Germania non si dovrebbe chiedere di esportare di meno, quanto invece di importare di più, associando a tale disposizione altre misure espansive, stimolando i consumi interni e aiutando così le altre economie europee a crescere sulla base del principio fondamentale (oggi obliterato) di solidarietà tra le nazioni Ue. 

Non è una coincidenza che il 28 giugno scorso, proprio nei giorni di massimo scontro con Washington sui dazi, Pechino abbia deciso di pubblicare il libro bianco intitolato "La Cina e l'Organizzazione mondiale del commercio", con l’intento di dimostrare che la sua adesione al sistema del commercio internazionale abbia portato benefici a tutti. Un’affermazione quest’ultima che andrebbe tuttavia approfondita, se è vero che gli squilibri commerciali restano sistemici e crescenti tra diverse economie aderenti al sistema OMC. 

Nel suo libro bianco Pechino cerca di dare un resoconto completo degli impegni assunti in sede OMC, illustrando principi, posizioni, politiche e proposte avanzate per migliorare in funzionamento del sistema commerciale multilaterale. Secondo la sua leadership, la Cina avrebbe rispettato pienamente gli impegni sottoscritti, aprendo il suo mercato al mondo, generando risultati reciprocamente vantaggiosi e assicurando un contributo significativo anche alle altre nazioni dopo la sua adesione all'OMC nel dicembre 2001, una data questa che va considerata a ragione una pietra miliare per l'integrazione della Cina nella globalizzazione economica e per i riflessi che ne sono conseguiti sugli assetti commerciali internazionali. Pechino sottolinea i progressi compiuti dalla Cina negli ultimi 17 anni, il 30% della crescita economica mondiale frutto di quella cinese, mentre le barriere tariffarie e non tariffarie sarebbero state ridotte significativamente e il commercio estero sarebbe stato ampiamente liberalizzato, anche se non tutti i giudizi degli analisti internazionali sono concordi in merito.

UN APPROCCIO NON IDEOLOGICO FAVORIREBBE L'EXPORT ITALIANO

Il rapporto osserva che "La Cina è stata un forte sostenitore del libero scambio", ciò che ben si comprende dal momento che esso va a suo pieno beneficio. La Cina ad esempio può acquistare in Occidente le aziende che vuole, ivi compresa preziosa tecnologia, mentre la stessa cosa non è possibile per un’azienda straniera che opera sul mercato cinese. Si capiscono bene dunque le ragioni per le quali Pechino è oggi un forte sostenitore del sistema commerciale multilaterale. Il documento sottolinea poi l’impegno cinese, in linea con le disposizione OMC, a rivedere leggi e regolamenti a livello centrale e locale su commercio, investimenti, tutela della proprietà intellettuale e altro.

Inoltre, è vero, come afferma il libro bianco, che la Cina già dal 2010 soddisfa i requisiti OMC sulle tariffe, avendole ridotte in media dal 15,3% nel 2001 al 9,8 di oggi, sui manufatti dal 14,8% all'8,9% e sui prodotti agricoli dal 23,2% al 15,2%, un livello questo inferiore a quello dei paesi in via di sviluppo aderenti all'OMC (56%) e ai paesi sviluppati (39%). La tariffa massima cinese su prodotti agricoli è infatti del 65%, mentre Stati Uniti, Unione europea e Giappone mantengono tariffe rispettivamente del 440%, 408% e 1.706%. Eppure, a dispetto di tali affermazioni, in Cina le barriere non tariffarie restano insidiose, sono diffusi trasferimenti forzosi di tecnologia da parte di imprese straniere investitrici, così come discriminazioni di imprese straniere, violazioni della proprietà intellettuale, liste nere di settori in cui non si può investire, una diversa agibilità delle banche Ue sul mercato cinese rispetto a quelle cinesi in Europa e altro ancora. Ma soprattutto, tale quadro tariffario non impedisce alla Cina di godere di avanzi commerciali sostenuti in particolare nei riguardi di Stati Uniti e Unione Europea, alla luce della diversa struttura dei costi nelle rispettive catene produttive. 

Sempre in tema di impegni con l’OMC, la Cina non è tuttora parte del Government Procurement Agreement (GPA), ciò che pone limiti invalicabili alle imprese straniere che vogliano partecipare in Cina a gare pubbliche d’appalto. Queste ultime (incluse quelle delle imprese di Stato) sono dunque precluse, in via formale o per i requisiti richiesti, alle imprese e ai prodotti stranieri, a meno che non sussista uno specifico interesse cinese ad acquisire tecnologie di cui il paese non dispone. 

In buona sostanza, a fronte di disavanzi strutturali sofferti da altre economie, Pechino si è sinora mostrata poco sensibile. Ad essi, seppure con gradualità, il governo cinese dovrà prima o poi mettere mano, per non esacerbare le relazioni con le nazioni deficitarie. Se oggi il contenzioso è concentrato sugli Stati Uniti, in futuro potrebbe dunque emergere uno scenario analogo, anche se di minore intensità, tra Cina e Ue. Al momento la China Policy europea è decisa dalla Germania sulla base degli interessi suoi e dei suoi satelliti. Tuttavia, se i paesi Ue colpiti da un deficit eccessivo usciranno dal letargo e inizieranno a rivendicare presso le istanze dell’Unione una maggiore tutela anche dei loro interessi e non solo di quelli del Nord, il tema del disavanzo commerciale con la Cina potrà riacquistare la sua centralità. A quel punto anche l’Italia, che oggi registra un deficit annuale di 16-20 miliardi di euro, potrebbe veder crescere di molto le proprie esportazioni verso la seconda economia del mondo.