Corea, Putin "detta la linea" a Xiamen

di Flavia Lucenti pubblicato il 12/09/17


La strategia delle politiche sanzionatorie incoraggiata dalla comunità internazionale rischia di rivelarsi inefficace se non addirittura controproducente. Se in un primo momento le sanzioni votate dalle Nazioni Uniti contro Kim Jong-Un sembravano aver sortito un effetto positivo – il leader della Corea del Nord aveva interrotto il lancio di missili- alla fine dell'agosto scorso è ricominciato il braccio di ferro tra Pyongyang e Washington.


A riaccendere questo susseguirsi di provocazioni e reazioni tra la Corea del Nord e gli Stati Uniti, è stato probabilmente un tweet postato da Donald Trump il 16 agosto. Il presidente degli Stati Uniti scrive di ritenere saggia la decisione di Kim Jong-Un di non mettere nel mirino dei missili nordcoreani l’isola di Guam, minacciando altrimenti “conseguenze catastrofiche”. Il 28 agosto Kim Jong-Un torna a provocare la comunità occidentale, lanciando un nuovo missile che riesce a sorvolare il Giappone. Trump insiste, e due giorni dopo il test missilistico del 28 agosto twitta ancora, questa volta scrive: “talking is not answer”, rifiutando dunque la possibilità di aprire un tavolo di negoziati e di dialogo con il leader nordcoreano. Poi, il 3 settembre, a poche ore dall’inizio della conferenza dei BRICS nella città di Xiamen, sulla costa sud-occidentale cinese, il sesto test atomico nordcoreano. Kim Jong- Un fa esplodere una bomba probabilmente ad idrogeno, la cui potenza sarebbe stata superiore a quelle fatte esplodere su Hiroshima e Nagasaki.


A questo punto, Washington chiede un inasprimento delle sanzioni contro il regime di Kim Jong- Un. Stavolta però, non i tutti i leader mondiali sembrano essere d’accordo con le scelte dell'Amministrazione Trump, sebbene la condanna del nuovo test atomico effettuato dalla Nord Corea arriva della comunità internazionale senza eccezioni. In particolare è la Russia a non approvare la strategia delle politiche sanzionatorie nei confronti di Pyongyang.


Al meeting di Xiamen, Putin coglie l’occasione per ribadire che le nuove sanzioni volute soprattutto da Tokyo e da Washington sulle esportazioni nordcoreane, e la proposta di un embargo energetico sui prodotti petroliferi, non avrebbero rappresentato uno strumento efficace per fermare il leader di Pyongyang. Il 5 settembre, durante la conferenza stampa con cui si è chiuso il summit dei BRICS, il presidente russo, incalzato dalle domande dei giornalisti, si esprime nuovamente sul regime di Kim Jong-Un. Alla domanda su quale sia l’opinione del Presidente nei confronti del regime di Pyongyang dopo il fallimento dell’apertura di un dialogo, delle minacce di Trump e delle sanzioni applicate dalla comunità internazionale, Putin risponde senz’ironia che “questa è la domanda più semplice di oggi”.


Per chiarire il suo punto di vista, Putin cita come esempio la gestione statunitense del conflitto con un altro dei cosiddetti stati-canaglia: l’Iraq. “Tutti noi ricordiamo bene cosa successe in Iraq e a Saddam Hussein – dice il presidente russo - Saddam Hussein aveva abbandonato la produzione di armi di distruzioni di massa, eppure con il pretesto di cercare queste armi, Saddam stesso e la sua famiglia vennero uccisi (Saddam Hussein fu impiccato il 30 dicembre del 2006, n.d.a ) durante una famosa operazione militare. Anche i bambini morirono, i nipoti credo- a cui si sparò a morte. Ascoltatemi, ognuno di noi è consapevole di ciò che è successo in Iraq e ognuno di noi ricorda - anche la Corea del Nord. Pensiate che basteranno delle sanzioni per convincere Kim Jong-Un ad abbandonare la creazione e la detenzione di armi di distruzioni di massa? […] Come ho già detto ai miei colleghi ieri (in seno alla riunione dei BRICS di Xiamen, n.d.a.), in Nord Corea preferiranno mangiare erba piuttosto che abbandonare il programma di riarmo nucleare, e avanti così sarà finché non si sentiranno al sicuro”.


Il presidente russo sottolinea l’incapacità da parte della comunità internazionale di gestire la crisi con la Nord Corea, ma, seppur incoraggiando l’apertura di un dialogo con Pyongyang, sembra cogliere l’occasione per esprimere il proprio dissenso rispetto a quei processi di governance mondiale che contrastano con le aspirazioni del Cremlino.


In primis, c’è la questione della sicurezza nazionale. Putin evidenzia, nelle dichiarazioni rilasciate in queste ultime settimane, come la Nord Corea si senta minacciata dalla presenza militare degli Stati Uniti in Corea del Sud e come il programma militare di Kim Jong-Un sia considerato l’unica via per garantire la continuità del suo potere a fronte di tale rischio. L’empatia di Putin rispetto alla presenza militare degli Stati Uniti a Seul come fattore destabilizzante per il regime di Pyongyang, rispecchia in parte il dissenso di Mosca per le scelte di politica estera statunitensi che interessano anche il Cremlino. L’ingresso dei paesi baltici prima nell’Unione Europea, e poi nella NATO del 2004, ha infatti portato l’alleanza atlantica a creare basi militari alle porte della Russia- motivo per cui Putin ha reagito duramente per arrestare il tentativo di imboccare lo stesso percorso nel caso dell’Ucraina.


A seguire, la critica di Putin è nei confronti delle sanzioni volute da parte della comunità occidentale, di cui la Russia ha già esperienza. Le sanzioni alla Nord Corea, imposte e rafforzate dopo ogni test, dimostrano di non aver rallentato il percorso nucleare voluto da Kim Jong-Un, che al contrario oggi ha raggiunto uno stadio avanzato. Allo stesso modo, le sanzioni adottate contro la Russia, a seguito della crisi che ha scosso l’est dell’Ucraina nel 2014, non hanno portato ad una risoluzione del conflitto, anzi è stata l’Europa a finire a sua volta sotto il ricatto di Putin, in attesa della prossima mossa dell’Occidente con la mano sopra il “rubinetto” del gas.


La posizione del presidente russo tuttavia contribuisce alla riflessione su come il meccanismo dell’ingerenza e delle sanzioni attualmente sia meno efficace rispetto al passato, soprattutto dal momento in cui la leadership mondiale non è più appannaggio dell’Occidente, cioè di chi fino a ora ha deciso quali dovessero essere le pratiche di gestione della governance mondiale. La Corea del Nord quindi, con i suoi missili e test nucleari, sta veramente “begging for war (implorando una guerra)”, come ha commentato la rappresentante americana alle Nazioni Unite Nikki Haley? Oppure questi sono dei tentativi maldestri da parte di Kim Jong-Un per rafforzare la propria posizione negoziale e chiedere il ritiro delle truppe statunitensi dalla Corea del Sud, allo scopo di contenere l’interferenza statunitense nella regione asiatica? Il tempismo del leader coreano, in qualche modo, conferma quest’ultima ipotesi. Kim-Jong-Un ha fatto coincidere il test atomico con il periodo delle ormai rituali esercitazioni militari tra l’esercito sudcoreano e quello statunitense in Sud Corea.


Quale sarà l’evoluzione della questione nordcoreana? Immaginare gli sviluppi futuri è difficile– se da una parte, come Putin sottolinea, le sanzioni non sono servite e probabilmente non serviranno a mettere in riga Kim Jong-Un, dall’altra la possibilità di aprire un dialogo alternativo alle politiche sanzionatorie si fonda su basi troppo deboli. Gli Stati Uniti, come all’indomani dell’11 settembre di sedici anni fa, stanno riproponendo la stessa retorica del “con noi o contro di noi” nei confronti del regime di Pyongyang. Nikki Haley ha chiesto alla Nazioni Unite che oltre alle sanzioni alla Nord Corea, vadano considerate ripercussioni anche per i paesi che commerciano con Pyongyang, con l’accusa di complicità con il regime nordcoreano e di supporto alle sue pericolose intenzioni nucleari. Il primo partner commerciale della Corea del Nord è la Cina, la quale potrebbe farsi promotrice dell’apertura di un negoziato con la Nord Corea grazie alla sua influenza regionale. Le parole del rappresentante alle Nazioni Unite tuttavia, che indirettamente definiscono la Cina complice del regime di Kim-Jong-un, non incoraggiano Pechino ad agire in maniera concreta.


Per fare la voce grossa come sta facendo l’amministrazione Trump c’è di bisogno di risorse e credibilità e supporto a livello internazionale, e Kim Jong-Un - leader di un piccolo paese dall’economia arretrata che sta riuscendo nell’obiettivo di diventare una potenza nucleare- rappresenta una prova importante per la leadership statunitense. Concludendo, gli Stati Uniti dovranno sia trovare un modo per fronteggiare la minaccia nordcoreana ma anche di ritrovare il sostegno da parte delle altre grandi potenze, tenute finora ai margini della comunità occidentale, come la Russia e la Cina, le quali, non condividendo le attuali pratiche di governance internazionale – come ad esempio le politiche sanzionatorie o di accerchiamento militare (si veda anche il Pivot to Asia)- mettono a repentaglio la tenuta della leadership mondiale, il cui asse sembra allontanarsi sempre più dall’occidente.