Le connessioni di Xi Jinping

di Franco Mazzei pubblicato il 04/12/18

1.- Diffusa è l’opinione tra gli analisti, in Cina e in Occidente, che il 2012, con l’arrivo al potere di Xi Jinping, abbia rappresentato una svolta nella storia della Repubblica Popolare Cinese: la transizione alla CINA 3.0, dopo la Cina di Mao Zedong (1949-76), fortemente ideologizzata e pauperista che ha segnato la fine del lungo “secolo della umiliazione”, e quella economicamente sviluppista ma di basso profilo politico di Deng Xiaoping (1978-2012). In effetti, se l’obiettivo primario di Mao era dare un assetto politico (soprattutto interno) alla Cina “rinata”, e se quello di Deng era liberare dalla povertà centinaia di milioni di cinesi e nel contempo dare stabilità al Paese inserendolo con gradualità e prudenza confuciana nel capitalismo internazionale, l’obiettivo primario di Xi non è di natura esclusivamente “politica”, come quello di Mao, né “economica”, come quello di Deng, ma eminentemente “geopolitica”. Detto in breve, riportare l’antico “Impero del Centro” al ruolo che la storia gli assegna in questo nuovo mondo multi-centrico sempre più complesso e interdipendente, che è sì unificato dalle tecnostrutture della globalizzazione economica, ma è profondamente dilaniato dalla geopolitica e dalla cultura, privo com’è di una qualsiasi forma di governance globale.


Come già da tempo abbiamo sottolineato su questo sito, il megaprogetto lanciato da Xi subito dopo il suo arrivo al potere, la cosiddetta “Nuova Via della Seta”, è un chiaro tentativo di realizzare la sua nuova visione geopolitica, che ha come perno non più lo stato westfaliano con le sue frontiere e il suo paradigma sovranistico, bensì la “connessione” in quanto legame e mezzo di cooperazione tra i popoli. (CSCC, L'ascesa della Cina: verso un mondo multipolare? 21 nov. 2016)
Ai margini del convegno “Per mare o via terra? Nuove prospettive per il commercio tra Italia e Cina lungo la via della Seta”, che avrà luogo il 6 dicembre 2018 presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, organizzato dal nostro Centro e in cui si affrontano tra l’altro interessanti implicazioni geoeconomiche per il nostro Paese, ci è sembrato utile riportare alcune riflessioni su questo tema dai possibili effetti dirompenti su scala globale, partendo proprio da una prospettiva geopolitica.

Le priorità della nuova leadership

2.- Come s’è accennato, il principale problema della Cina di Deng (CINA 2.0) era come risolvere il problema della povertà. Oggi, dopo tre decenni di crescita economica oltremodo accelerata, il problema della povertà non è del tutto risolto, nonostante gli straordinari risultati ottenuti. Tuttavia, l’agenda della cosiddetta Quinta generazione di leadership al potere (rappresentata appunto dal Presidente Xi e dal Primo ministro Li Keqiang) ha ben altre priorità.
Preliminarmente va ricordato che la successione della nuova Leadership è stata rispetto al passato in qualche modo più trasparente, o meglio meno lineare. Nella fase precedente, la nuova generazione di leader era designata per cooptazione dai membri del gruppo al potere. Al contrario, la nomina di Xi è stata controversa, preceduta da un aspro e duro dibattito tra “linee politiche”, all’interno e fuori del Partito, cristallizzatosi su due modelli alternativi di sviluppo: il modello Guangdong (favorevole allo sviluppismo di Deng, quindi al mercato e alla globalizzazione) e il modello Chongqing che enfatizza il ruolo dello Stato rispetto al Mercato ed è più sensibile alle istanze sociali (un modello più autoritario, considerato populista e neo-maoista).


Ricordiamo che Xi è uno dei Taizi, i cosiddetti “principini” perché figli o nipoti degli eroi della “Lunga Marcia” e della lotta rivoluzionaria contro il Giappone e il Kuomintang: questo gruppo è scarsamente coeso ma viene in genere visto in posizione intermedia tra il il gruppo dei Tuanpai (molti ex membri della “lega dei giovani comunisti”) e la “cricca di Shanghai” (Shanghai bang), che invece hanno chiare coloriture politiche (statalista il primo e liberista il secondo). Sotto questo aspetto, nel confronto con i due gruppi, Xi sembra particolarmente attento a dosare “caso per caso” elementi del confucianesimo ideazionistico o rivoluzionario di Mao (che a sua volta si rifà al pensiero di Wang Yangmin, un filosofo neo-confuciano del XVI secolo, molto caro anche ai “restaurazionisti” giapponesi che nel 1868 posero fine al secolare governo samuraico degli sh?gun) con elementi del confucianesimo conservatore di Deng, che perpetua invece la corrente di Zhu Xi, largamente dominante negli ultimi nove secoli. Questa posizione mediana tra fazioni politiche e tradizioni di pensiero è ben espressa dalla definizione che è stata data delle politiche della Quinta generazione: economicamente liberali e politicamente stataliste.

(Acconciamente il politologo LI Chen individua nel “gioco delle fazioni” all’interno del PCC il fattore dinamico del sistema politico della Cina, proprio come avviene in Giappone in cui – seppure in un quadro del tutto diverso dal punto di vista istituzionale - le “fazioni” del Partito Liberal-Democratico hanno permesso a questo partito di governare il Paese negli ultimi sessant’anni con saggezza confuciana e con standard occidentali di democrazia formale, al punto che alcuni studiosi occidentali definiscono il sistema partitico nipponico come one-and-half party system. Li, in un noto saggio del 2008 individuava due “coalizioni” all’interno del PCC, entrambe potenti. Da una parte, la coalizione degli “elitisti”, comprendente oltre ai Taizi un gruppo di politici originari della ricca Cina costiera e in particolare di Shanghai, che da tempo è un vero e proprio laboratorio politico: questo gruppo è particolarmente interessato alla crescita economica e alla funzionalità del mercato. In posizione opposta vi sono i “populisti”, il cui nucleo è costituito dal gruppo dei Tuanpai, che sono invece attenti alle disuguaglianze sociali e più in generale all’armonia sociale. La Quarta Generazione, rappresentata dal Presidente Hu Jintao, era espressione di questa fazione politica. Cf LI Cheng, Chinese Politics in the Xi Jinping Era: Reassessing Collective Leadership, Brookings Institution Press, 2016.)


Dal punto di vista strettamente politico, l’obiettivo di Xi è quello di rinsaldare il sistema politico centrato sul Partito Comunista evitando “l’affondamento di tipo sovietico”, già rischiato ante-litteram ai tempi della protesta di Tiananmen nella primavera del 1989 (peraltro mentre era in visita ufficiale a Pechino Gorbacev). In altre parole, evitare che la Cina faccia la fine della Russia di Boris Yeltsin, il quale, aiutato sottobanco dagli americani (accecati dalla possibilità di creare un mondo “unipolare”), per accelerare la transizione verso l'economia di mercato e un sistema democratico di tipo occidentale abbandonò la traiettoria “prudente” ma efficace intrapresa coraggiosamente da Gorbacev (proprio sul modello di Deng), portando alla distruzione del Partito e alla dissoluzione della stessa Unione Sovietica e allo “scellerato” ultimo decennio del XX secolo con l’ascesa degli “oligarchi”.
Come fece Deng ai tempi di Tiananmen, per evitare un eventuale “affondamento”, ora Xi sta usando la mano pesante, facendo ricorso soprattutto a tre strumenti:
1) un rafforzamento del controllo politico sul Partito, sulle università, sui think-tank, sui social-media.
2) una vasta e dura campagna anti-corruzione, usata anche come strumento politico di regolamento di conti.
3) il consolidamento ideologico con l’attento dosaggio delle due tradizioni confuciane cui sopra si è accennato.

La nuova geopolitica cinese

Secondo Mark Leonard, politologo britannico e fondatore dell’European Council on Foreign Relations (ECFR), il tema principale dell’agenda di Xi è il superamento di tre sfide, tutte prodotte dal successo ottenuto nell’era di Deng. (Leonard, ed., CHINA 3.0, European Council on Foreign Relations, 11 nov. 2012.) La prima è economica: per usare le categorie del neokeynesiano Paul Krugman, l’economia cinese dovrebbe passare dalla crescita “estensiva” a quella “intensiva”, ovvero dall’aumento quantitativo dei mezzi di produzione al miglioramento della produttività degli stessi. La seconda è politica, cioè dare una risposta concreta ai problemi derivanti da ciò che in occidente sbrigativamente è etichettato come “deficit democratico”. Infine, la sfida geostrategica, che è quella che preoccupa di più la Quinta Generazione in quanto il Pacifico Occidentale non è più solo l’area economicamente più dinamica del Pianeta, ma è anche la più militarizzata, giacché Washington, già sin dall’Amministrazione Obama con la strategia Pivot to Asia, ha confermato l’intento di continuare a svolgere in quella regione il ruolo di “equilibratore esterno”, offshore balancer. (CSCC, “Xi Jinping uno e trino”, 18 marzo 2018.)


Come è ben noto, tradizionalmente la minaccia geopolitica per la Cina era rappresentata dalle possibili invasioni dei popoli nomadi delle steppe, donde la Grande Muraglia e le province “cuscinetto”, abitate da popolazioni etnicamente non cinesi (mancesi, mongoli, uiguri, tibetani) che avevano il ruolo geopolitico di difendere la “Cina Han”, cioè la Cina abitata da cinesi di etnia han. Oggi la vulnerabilità geopolitica cinese è profondamente mutata: la minaccia viene dal mare - un tempo considerato una barriera sicura, insuperabile - ed è rappresentata dalla massiccia presenza della marina militare statunitense che, con i suoi alleati (in primo luogo il Giappone), è in grado di bloccare i porti e gli stretti. e quindi soffocare economicamente la Cina. (F. Mazzei, “La Cina e il mutamento degli equilibri in Asia Orientale”, Treccani - Atlante Geopolitico 2015.) La risposta di Xi a questa minaccia è duplice. La prima è un mutamento della geopolitica cinese, che da continentalistica oggi è chiaramente navalista. La seconda è un tentativo di dare una veste “sino-centrica” ad un ordine euroasiatico. Di questo tentativo il progetto della Nuova Via della Seta è una manifestazione fin troppo evidente.

3.- Il megaprogetto lanciato da Xi subito dopo la sua nomina a Segretario Generale del PCC, e quindi a Presidente della RPC, è noto come One Belt One Road (OBOR) o Belt and Road Initiative (BRI). Esso è focalizzato sulla “connettività” e sulla cooperazione tra la Cina e gli altri paesi eurasiatici (Africa compresa), attraverso una “Doppia Via della Seta”: una terrestre (New Silk Road Economic Belt), e una marittima (New Maritime Silk Road). Ufficialmente, cinque sono le principali aree coperte dalla connettività, da realizzarsi attraverso l’integrazione e scambio culturale (in senso lato): coordinamento politico, costruzione di infrastrutture, integrazione finanziaria e rafforzamento dei legami tra i popoli. È fin troppo ovvio che questa iniziativa va al di là di connessioni fisiche, anche se fino ad oggi è la costruzione di infrastrutture quella privilegiata. In realtà, alla base di questo progetto c’è una nuova nozione geografica solo recentemente teorizzatata dal un noto politologo indiano, Parag Khanna, con l’ultimo volume della sua celebre trilogia (Connectography, le mappe de futuro ordine mondiale, Fazi, 2016), con cui si proietta il sofisticato “mondo della connettività” in graduale sostituzione del vecchio “mondo del limes”. Quel che va sottolineato è che il progetto OBOR/BRI è stato lanciato ufficialmente nel 2013, quindi ben tre anni prima della teorizzazione fattane dal politologo indiano.


Comprensibile è il grande interesse che questa iniziativa ha suscitato in molti paesi eurasiatici: lo testimoniano, tra l’altro, i numerosi incontri intergovernativi, tavole rotonde e convegni, tra cui quello organizzato dal nostro Centro a Venezia. Nello stesso tempo non vanno sottovalutate le diffuse perplessità in quanto questo progetto è visto anche come una forma di neocolonialismo, una trappola per il debito sovrano dei Paesi aderenti, più in generale una manifestazione della volontà egemonica di Pechino. Timori e perplessità sono particolarmente forti in Giappone, ma anche in India, un paese tradizionalmente ostile alla Cina. In effetti, molti strateghi indiani vedono nell’OBOR una trasformazione della vecchia politica adottata da Pechino nell’Oceano Indiano, nota in Occidente come “Collana di Perle” (una graduale creazione di avamposti e basi operative lungo le rotte dalla Cina all’Oceano Indiano e Pacifico), in una sistematica strategia espansionistica sotto il manto di sviluppo economico e di prosperità condivisa.

Una sofisticata combinazione di mito e utopia

4.- Xi ha un “sogno” che è una sofisticata combinazione di mito e di utopia. Vale a dire, da una parte l’immagine del grande passato dell’Impero del Centro, segnatamente dell’Ordine Internazionale Sinocetrico, definita da Luciano Peteck (uno dei grandi orientalisti europei del secolo scorso) una delle più straordinarie invenzioni istituzionali della Cina insieme alla “burocrazia celeste”. L’ordine sinocentrico per secoli – finché non fu spazzato via dal sistema westfaliano imposto dalle potenze imperialistiche europee - ha rappresentato nell’Asia Orientale e in parte dell’Asia Meridionale l’intelaiatura del commercio regionale: una vera e propria “zona commerciale” avente l’argento come valuta e i prezzi fissati con riferimento a quelli praticati in Cina. Recenti studi tendono a vedere questo sistema internazionale di relazioni internazionali, centrato sulla Cina e basato sull’istituto del “tributo al Figlio del Cielo” (l’Imperatore cinese), come una sorta di antenato dell’Unione Europea. Ovviamente con le dovute differenze, in particolare con una struttura acefala e aperta (inclusiva) in quanto il “tributo”, di fatto, era essenzialmente un atto formale. Personalmente, ritengo che il sistema internazionale sinocentrico risponda meglio alla nozione di “economia-mondo” come teorizzata da Braudel con riferimento al Mediterraneo all’epoca di Filippo II.


Ma il sogno di Xi ha anche un forte elemento utopico: l’immagine del futuro, che di per sé è inconoscibile ma, come affermava il filosofo francese Maurice Blondel, si può cercare di costruirlo per evitare di essere passivi spettatori o rimanerne vittime. A questo fine è utile creare prospettive e non basarsi sulle semplici proiezioni. Le proiezioni, con cui si dilettano a Bruxelles e in molte capitali europee, sono mere mediane statistiche relative ad un dato isolato dal contesto (ad esempio il Pil dell’UE tra dieci anni) e sulla base del rebus sic stantibus (ignorando quindi le discontinuità). Al contrario, le prospettive mettono in evidenza le sfide quando si è ancora in tempo di intervenire; e ciò è vitale in un periodo come quello in cui viviamo, segnato da mutamenti che stanno drammaticamente accorciando il tempo, rimpicciolendo lo spazio e digitalizzando la nostra esistenza.


In concreto, la visione di Xi è riportare il “Paese del Centro” - e “non di mezzo” (in mezzo a che?), come per pigrizia linguistica si usa ancora dire in Italia - al ruolo che la storia gli ha assegnato. E ciò implica, per l’appunto, una “proiezione” basata su una nuova visione geopolitica di un mondo che, come abbiamo detto, è sempre più complesso. Gli studiosi di Relazioni Internazionali, tra imbarazzi e reticenze provocati dalla rapidità e dalla radicalità dei cambiamenti in atto a livello globale, danno un ampio spettro di risposte che possono essere sommariamente divise in pessimistiche e ottimistiche. La maggior parte delle risposte s’ispirano al cosiddetto “Realismo offensivo” di J. Mearsheimer, secondo cui l’anarchia internazionale (la mancanza di una governance globale efficace) spinge le Grandi Potenze verso l’egemonia o a conservare il loro declinante primato (è il caso dell’America di Trump), e quindi verso situazioni conflittuali. Ma non mancano prospettive rassicuranti come quelle dei “costruttivisti”, secondo i quali l’agente (l’attore politico) può modificare la struttura del sistema. È quello che avvenne con Gorbacev, che ha portato alla fine della Guerra Fredda e del Bipolarismo, ovvero con quel magnifico frutto di “volontarismo storico” che ha radicalmente mutato il Vecchio Continente grazie ad un manipolo di uomini illuminati che sognavano l’Europa non come un insieme di stati bensì come uno “stato-civiltà”, in quanto incarnazione e garante di un sistema di valori.


Scendendo dal dibattito teorico all’analisi fattuale, la storia ci dice che la globalizzazione e la digitalizzazione (due macro-fenomeni che segnano il nostro tempo) sono fenomeni irreversibili: irreversibilità che i leader cinesi – a differenza di non pochi leader occidentali - hanno in fretta metabolizzato aiutati dal tradizionale pragmatismo confuciano. Il problema è come dare delle regole alla globalizzazione e come gestire la digitalizzazione e, quindi, come creare le condizioni favorevoli alla formazione di una governance in grado di raggiungere questi obiettivi. Sotto questo aspetto, l’azione politica sin qui realizzata da Xi Jinping può certamente essere vista come una strategia che si muove verso questa direzione. Più in generale, possiamo dire che la prospettiva geopolitica di Xi, di cui OBOR/BRI è la maggiore manifestazione fattuale, mira alla costruzione di un nuovo ordine in cui le antiche Grandi Muraglie, i confini e nuovi muri (retaggio quest’ultimi del sistema westfaliano) vanno gradualmente rimpiazzati con “connessioni materiali e immateriali tra i popoli”, come ferrovie, porti e aeroporti, gasdotti e hubs, supply chain e reti informatiche.


In conclusione, il sogno del Presidente Xi è un mondo globalizzato ma regolamentato e possibilmente "sinocentrico", che tende a organizzarsi non più su una logica territoriale (westfaliana, basata sulla sovranità degli Stati), ma su reti mondiali che implicano il graduale superamento del principio westfaliano della domestic jurisdiction, ovvero della non ingerenza negli affari interni di un altro stato, principio di cui la Cina finora è stata uno strenuo difensore. (Jacob Mardell, “Dispute settlement on China's terms: Beijing's new Belt and Road courts”, Merics Blog – European Voices on China, 14/02/2018).
In definitiva, il successo del progetto OBOR dipende da numerosi fattori, fra cui certamente il grado di accoglienza che esso avrà dai paesi coinvolti, ma anche dalla capacità di Beijing di sciogliere in qualche modo questo nodo e così dimostrare che OBOR è effettivamente un’iniziativa win-win.