Il ginepraio di Hong Kong

di Alberto Bradanini pubblicato il 04/09/19


Le folle di manifestanti che dal marzo di quest’anno si riversano nelle strade di Hong Kong (HK) ogni fine settimana esprimono insieme apprensione e frustrazione. La prima è legata al futuro, sia quello vicino, se le interferenze nel sistema di Hong Kong da parte di Pechino dovessero superare una fisiologica soglia di tolleranza, sia quello lontano, quando nel 2047 la Regione Amministrativa Speciale cesserà di essere tale e, salvo una possibile proroga del suo eccezionalismo politico-amministrativo, verrà equiparata in tutto e per tutto alle altre province cinesi. Il secondo sentimento si scontra invece con l’implacabilità della storia, che dopo 156 anni ha decretato il ritorno alla Cina, incurante degli accadimenti occorsi e delle diverse sensibilità nel frattempo emerse nella popolazione locale rispetto al resto della Cina. Tale scenario resta sullo sfondo a prescindere dalle pregresse responsabilità del governo di Londra, che ha scoperto democrazia e suffragio universale solo a ridosso del ritorno di HK alla madrepatria.


Su entrambi i sentimenti, ne aleggia poi un terzo, nel non detto dei manifestanti, vale a dire la paura che gli eventi possano prendere una piega drammatica. Talune rivendicazioni infatti potranno essere accolte, (innanzitutto la cancellazione del progetto di legge sull’estradizione), altre appaiono invece politicamente indigeribili per la dirigenza di Hong Kong/Pechino (a partire dalla richiesta del suffragio universale per l’elezione del Chief Executive e del Consiglio Legislativo), altre sembrano improbabili (le dimissione di Carrie Lam) e altre ancora decisamente fuori dal contesto storico (ad esempio, talune velleità secessioniste che serpeggiano nelle ali estreme del movimento di protesta).
Il contesto non offre facili vie d’uscita. Vale però la pena ripercorrere le trame di alcuni accadimenti obliterati da un sistema mediatico ansioso di facili risposte a temi complessi.

Nella diversità di contesti e rivendicazioni, le proteste di HK hanno alcune radici comuni con quelle dei gilet gialli in Francia che hanno fatto emergere l’inquietudine dei ceti emarginati davanti all’inconsistenza delle promesse elettorali di Macron. Sebbene geograficamente lontani tra loro, ampi strati delle due comunità esprimono un analogo disagio, la medesima paura di veder peggiorare le proprie condizioni di vita, sotto il profilo economico in Francia, sotto quello politico ma anche economico ad HK. La gestione di tale malcontento da parte delle rispettive sfere di governo è risultata simile: blandire gli interlocutori con accomodamenti di forma, contare sul logoramento, ricorrere a una repressione moderata senza superare una soglia di tolleranza, evitando tuttavia di affrontare i nodi delle questioni.
Vediamo come si è giunti al punto attuale. Va detto innanzitutto che la formula escogitata per HK da Deng Xiaoping - "un paese, due sistemi" – si è rivelata una formula geniale, che solo un Paese che si concepisce come civiltà poteva immaginare. Un classico stato-nazione europeo mai avrebbe potuto concepire una soluzione così impregnata di pragmatismo e insieme intellettualmente e istituzionalmente avanzata.


Dopo vent’anni di applicazione, quella formula tuttavia necessita forse di una revisione, o almeno di un aggiornamento, alla luce dell’evoluzione dei tempi, che nemmeno il genio inventivo di Deng Xiaoping avrebbe potuto prevedere. Egli stesso, se tornasse in vita, potrebbe convenire sulla necessità di un aggiornamento, rievocando un suo pensiero secondo il quale “il socialismo si costruisce nella storia non su scaffali di libri inutilmente impolverati dal tempo”.

Nella scommessa di Deng l’eccezionalismo di HK avrebbe dovuto fungere da laboratorio politico-economico per una crescita qualitativa della Cina Popolare e, in parallelo, avrebbe dovuto lasciar trasparire un percorso politicamente ammissibile anche per l’isola ribelle di Taiwan. Negli ultimi anni della sua vita, Deng aveva persino lusingato il Guomintang al potere sull’isola, promettendo di rafforzare alcuni aspetti autonomisti della formula che avrebbe consentito una transizione ordinata di HK alla Cina. Il riscontro di Taipei era stato tuttavia impietoso: ci terremo la nostra indipendenza e le nostre istituzioni fintantoché le condizioni storiche e la forza militare (con il sostegno americano) ce lo consentiranno, sottintendendo soprattutto fintantoché la Cina Popolare non sarà diventato una democrazia. Una reazione, quella di Taiwan indifferente alle diverse condizioni storiche nelle quali è sorta e cresciuta la Repubblica Popolare Cinese.


Per Taiwan inoltre, la formula di Deng applicata a Hong Kong avrebbe funzionato per così dire in negativo: se essa avesse fallito, Taiwan avrebbe avuto ragione due volte. Vale la pena ricordare che i due contesti generano sentimenti politici diversi: HK è la memoria plastica di un’epoca da cancellare, quella coloniale, figlia del secolo dell’umiliazione, delle guerre dell’oppio e dei capricci delle grandi potenze; Taiwan costituisce invece l’alternativa politico-istituzionale della rinascita cinese, il sogno di Sun Yatsen, primo Presidente della Repubblica alla caduta dell’impero Qing, colui che aveva preconizzato per la Cina il suffragio universale e un pieno riconoscimento delle libertà dell’individuo di fronte allo stato. In sintesi Taiwan rappresenta insieme quel lembo di terra ancora sottratto alla vittoria contro Chiang Kai-shek e la sfida ideologica alla Cina Comunista.


Ciò premesso, ecco il quadro che l’ex-colonia britannica offre all’osservatore:

1) la democrazia: HK divenne colonia britannica nel lontano 1841. Durante i 156 anni di dominio, gli inglesi non hanno mai evocato o meditato di introdurre un’ombra di democrazia. Per un secolo e mezzo, gli inglesi hanno escluso l’elezione diretta di un Governatore, sempre e solo nominato dal governo di Londra, o l’introduzione del suffragio universale per l’elezione del Consiglio Legislativo. In questo lungo arco di tempo la partecipazione della popolazione locale alle scelte politiche del territorio è risultata minima, fino al 1997 quando di colpo, in vista del ritorno alla Cina, la questione democrazia assume un rilievo fondamentale.
A partire dal luglio 1997 Chris Patten, ultimo governatore della colonia, il quale, dopo aver perso il titolo per mancanza di colonia, comincia a promuovere istituzioni democratiche ad HK, sollevando il tema dell’elezione del Chief Executive e del consiglio legislativo. È arduo in proposito definire diversamente che ipocrisia politica le posture di Londra e del suo ultimo governatore. Qualcuno potrebbe far notare la differenza dei sistemi politici nelle due patrie di riferimento, la Gran Bretagna, una democrazia liberale, la Cina, governata da un partito unico. Va detto in proposito che fino al 2047 (forse oltre) HK rimarrà una Regione Amministrativa Speciale con istituzioni politiche e un sistema giudiziario separati e garantisti. Inoltre, secondo il diritto internazionale, HK è oggi sotto piena sovranità cinese.
Quanto alle delicate tematiche relative all’estradizione, esse andrebbero gestite con maggiore sensibilità politica, una sensibilità che manca alla classe politica di HK, abituata a eseguire gli ordini (in passato di Londra, ora di Pechino), invece di elaborare risposte che solo chi vive nel territorio dovrebbe capire e gestire.
Va tenuto in conto che, essendo HK parte della Repubblica Popolare, il progetto di Pechino non può non essere l’unificazione del paese, sebbene in modi e tempi che possono diversificarsi a seconda delle circostanze. In definitiva, HK non potrà rimanere separata per sempre, pur ammettendo che il ben noto pragmatismo cinese possa prolungare i tempi del suo eccezionalismo anche oltre il 2047, per ragioni di convenienza.

2) La dirigenza di HK è di stampo coloniale. L’attuale Chif Executive, Carrie Lam, non è altro che un funzionario esecutore, priva di quelle qualità di leadership politica che la gestione della crisi richiederebbe. Quella dirigenza è figlia dell’amministrazione coloniale britannica. Per un secolo e mezzo, la politica di HK è stata elaborata a Londra, non sul territorio. Le carenze di sensibilità politica, l’incapacità di prevedere le reazioni a una proposta di legge dirompente per i delicati equilibri di HK, e la confusione nella conduzione degli eventi odierni, sono dunque da attribuirsi all’insufficiente preparazione politica dell’élite locale. Per molti versi dunque Hong Kong è rimasta una colonia, e la sua stessa economia lo dimostra.


3) L'economia. Molti reputano che HK sia stata una terra di successo prima del 1997 perché abitata da un popolo capace, dinamico e intelligente, e perché le sue istituzioni erano garantite da un paese libero e democratico, il Regno Unito. Si tratta di una lettura semplicistica della storia. In realtà il successo di Hong Kong – tale affermazione non appaia azzardata - è da attribuirsi alla fortuna. Per oltre 130 anni e fino al 1978, l’ex-colonia britannica non ha mostrato nulla per meritare una spazio particolare nella storia. La sua economia era stagnante, il suo futuro incerto. Improvvisamente, nel 1978, con una visione politica lungimirante Deng Xiaoping decreta l’apertura della Cina al mondo. Ecco che di conseguenza cambia anche la storia di HK, non solo quella della Cina Popolare. Passo dopo passo, l’economia della colonia britannica comincia a prosperare. HK diventa la porta d‘entrata del business occidentale verso la Cina e si fa conoscere nel mondo come gateway to China, porta d’ingresso in Cina, divenendo un ponte di straordinaria efficienza tra l’Occidente e la Cina Popolare. Una rendita di posizione che dura fino al dicembre 2001, quando la Cina entra nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (OMC). Da quel momento HK comincia la sua china discendente, perdendo lentamente questa sua posizione privilegiata. Molte imprese straniere non hanno più bisogno di passare da HK per fare business in Cina, potendo recarvisi direttamente. Da quel momento Shanghai, Pechino, Shenzhen e centinaia di altre città cinesi iniziano un cammino straordinario di crescita industriale e commerciale. La fortuna di HK non è dunque dovuta alla Gran Bretagna, ma solo ed esclusivamente alla Cina.
Molti commentatori richiamano il grande dinamismo economico di HK. Va invece rilevato che la città non possiede un'economia competitiva, essendo una tipica economia coloniale, basata sui privilegi dei tycoons che si dividono le risorse del territorio, centrate essenzialmente sulla ricchezza fondiaria, la proprietà della terra, che ancora oggi genera la maggior parte delle risorse. Si tratta di un'economia di stampo oligopolistico, e in alcuni ambiti persino monopolistico. Sotto questo profilo, nemmeno il ritorno alla Cina ha modificato alcunché.


4) nella visione futurista di Deng Xiaoping elaborata negli anni ’80 del secolo scorso, Shenzhen avrebbe dovuto percorrere le orme di HK, vista come benchmark di riferimento. Deng sarebbe oggi stupefatto di constatare lo straordinario successo di Shenzhen, in quegli anni un oscuro villaggio di pescatori. Shenzhen ha fatto da allora progressi inimmaginabili, divenendo il centro tecnologico più importante della Cina, seconda nel mondo per capacità e forza d’innovazione solo alla Silicon Valley, mentre HK è rimasta quella di sempre, mantenendo lo stesso modello economico di allora e generando sempre e solo ricchezza fondiaria.


5) la Regione Amministrativa Speciale di HK possiede autonomia amministrativa su ogni materia, eccetto la politica estesa e la difesa. L’occasione delle proteste odierne, dopo quelle del 2014 che chiedevano solo il suffragio universale, è stata originata dal tema dell’estradizione dei ricercati per reati commessi a Taiwan, o nella Cina Popolare. Non esiste al momento un percorso legale che consenta l’estradizione di un ricercato per reati commessi sull’isola o nel territorio della madrepatria, così come verso quei paesi con cui Hong Kong non ha un accordo di estradizione. La legge proposta da Carrie Lam consentirebbe al Chief Executive di autorizzare caso per caso l’estradizione dei ricercati, che però – ed è questo il punto critico - potrebbero essere soggetti sui quali Pechino intende mettere le mani per ragioni politiche. Dopo le proteste iniziate a marzo con l’annuncio della presentazione della proposta di legge, Carrie Lam il 15 giugno scorso ha affermato: “tale proposta è morta”, utilizzando tuttavia un’ambigua terminologia in lingua cantonese, che lascerebbe aperta la possibilità che possa essere ripresentata al Consiglio legislativo.

Le richieste dei manifestanti sono al momento le seguenti:

• ritiro definitivo del bill (obiettivo raggiungibile)
• dimissioni di Carrie Lam (difficile da ottenere)
• suffragio universale (quanto mai improbabile)
• commissione d’inchiesta indipendente sulla violenza della polizia (possibile)
• rilascio degli arrestati ritiro definitivo (negoziabile).


Gli spazi di compromesso sono dunque tanti e su questo dovrebbe appuntarsi il lavoro della classe dirigente di HK, con l’intuibile ausilio (discreto) di Pechino. Il gioco è sottile, così come le frontiere da salvaguardare, e avrebbe bisogno di una dirigenza politica di prim’ordine che manca ahimè all’ex-colonia britannica.


6) Alcuni infine rilevano che il popolo di HK non può rinunciare alla democrazia o allo stato di diritto cui è abituato, accettando di venir governato prima o poi dal Partito Comunista Cinese. La vera battaglia sarebbe su questa prospettiva, non tanto sul tema pur delicato dell’estradizione. L'unica risposta proponibile a tale quesito è che il futuro del territorio è in Cina. Il popolo di Hong Kong deve assumere il proprio destino, investendo sull’avvenire, su nuove intese di differenziazione, sulla possibile evoluzione delle istituzioni cinesi. E tutto ciò sarà più agevole se il popolo di HK si convincerà di essere parte della storia della Cina. Per 156 anni la popolazione di HK ha ignorato la Cina, pur essendone una sua costola. Il suo sguardo è rimasto orientato verso la Gran Bretagna, l’Occidente, mai verso Nord, la Cina continentale. È venuto il tempo per il popolo di Hong Kong di prendere congedo dal passato. È giunta l’ora di lavorare a un’integrazione mutuamente benefica con la Cina, levigando gli aspetti critici. Invece di concepirsi quale soggetto esterno, come fosse ancora una colonia, o addirittura un luogo separato (o peggio separabile) dalla Cina, Hong Kong è chiamata ad accettarsi definitivamente quale parte sostanziale e necessaria della Cina, della sua cultura e della sua storia.