Faw a Reggio, bisogna dire sì

di Alberto Bradanini pubblicato il 21/05/21

L’investimento del Gruppo industriale cinese Faw (First Automotive Works) a Reggio Emilia, che a quanto è dato sapere ammonterebbe a un miliardo di euro e darebbe lavoro a mille persone, deve valutarsi all’interno della più ampia dinamica dei rapporti Cina-Italia e Cina-Europa. Va intanto riconosciuto che si tratta di un’operazione encomiabile che consentirà tra l’altro di riequilibrare almeno in parte le asimmetrie negli investimenti reciproci, oggi a vantaggio della Cina.

Secondo un comunicato del Gruppo sarebbe stata costituita una joint-venture con un’azienda statunitense, la Silk-ev, per produrre vetture di alta gamma ibride e plug-in attraverso un piano industriale e risorse finanziarie provenienti da un consorzio bancario formato da Bank of China, Bank of Communications, ICBC e CCB.

La Faw è uno dei più noti produttori automobilistici cinesi. Fondata 1953, attualmente conta oltre 130.000 dipendenti e dispone di un patrimonio di 60 miliardi di euro. I suoi impianti produttivi sono distribuiti su tutta la Cina, dal Guangxi ad Hainan, Sichuan, Yunnan, Jilin, Shandong, Liaoning, Heilongjiang e a Tianjin. Il Gruppo è proprietario dei marchi Bestune, Hongqi e Jiefang. Nel 2019, ha venduto 3,464 milioni di vetture. I ricavi delle vendite del Gruppo nel 2019 sono stati pari a 620 miliardi di RMB, con utili e ricavi in continua crescita. Il partner statunitense è la Silk-ev, una società di ingegneria e design per auto, fondata e presieduta dall’americano Jonathan Krane (che risulterebbe anche proprietario della KraneShares, che gestisce patrimoni e fondi d’investimento).

È auspicabile che, una volta chiariti gli aspetti procedurali e industriali essenziali, autorità ed enti coinvolti assicurino la massima speditezza ed efficacia nel rilascio delle necessarie autorizzazioni. All’annuncio di tale investimento non si sono fatte attendere, come di consueto, le voci dissenzienti, presumibilmente basate su pregiudizi anti-cinesi a loro volta al servizio di chi intende demonizzare la nazione che sfida il dominio Usa nel mondo. Si tratta, per quanto ci riguarda, di posizioni autolesioniste che danneggiano gli interessi dell’Italia e dei suoi lavoratori. Altri paesi europei, che ospitano investimenti cinesi ben più consistenti di quelli in Italia, farebbero carte false per prendere il nostro posto. Sarebbe espressione di infantilismo credere che la cosiddetta vigilanza dell’Unione Europea, un’orchestra che suona sempre musiche del Nord, si occupasse degli interessi italiani, essendo evidente che la presunta solidarietà europea è solo un fantasma che nasconde l’intento delle oligarchie tedesche (e in parte francesi) di dominare l’economia e la politica del Vecchio Continente, depredando la ricchezza dei paesi assoggettati e passivi come l’Italia.

Una joint-venture per creare lavoro

Il capitalismo, che non è stato inventato dalla Cina Popolare, ci ha abituato a ben altre scorribande all’insegna del profitto. Oggi poi, in un’epoca di neoliberismo privo di regole, i pericoli maggiori per la nostra economia e il lavoro della nostra gente non vengono certo dai legami con la Cina (sebbene anch’essi andrebbero riequilibrati), qualitativamente e quantitativamente periferici, quanto piuttosto dalle funeste politiche di austerità della cosiddetta Unione Europea e dagli astuti partner nord-europei (basti pensare alle pervasive incursioni finanziarie francesi o alle acquisizioni tedesche a tappeto di preziose realtà industriali del Triveneto).

Quanto sopra premesso, sarà conveniente verificare che la joint-venture alla quale l’investimento fa capo abbia concrete caratteristiche per generare lavoro, remunerazione per i soggetti coinvolti e benefici di sistema per il territorio di riferimento. Le informazioni disponibili non chiariscono quale sarà l’origine dei capitali, che andrà dunque verificata. Se questi dovessero provenire da paradisi off-shore, la loro origine dovrebbe risultare legittima e tracciabile. Quanto ai rischi potenziali per le aziende del distretto emiliano – tra cui Ferrari e Maserati Lamborghini, Dallara, Pagani, Haas, Ducati, Magneti Marelli, e Toro Rosso – non è certo impedendo l’insediamento di tale joint-venture che se ne difende la solidità, ma attraverso il costante aggiornamento e tutela delle rispettive capacità industriali. E sotto questo profilo le aziende in questione sanno certamente il fatto loro.

Il contesto internazionale: la prodigiosa crescita degli ultimi quarant’anni ha reso la Cina una potenza mondiale, che alla dimensione demografica (1,41 miliardi di persone) aggiunge un crescente peso economico e politico in ogni angolo del pianeta.
In sintesi, la gerarchia dei paesi che per Pechino contano di più sul piano geopolitico vede al primo posto gli Stati Uniti, seguiti a distanza dalla Russia (per ragioni politiche ed economiche), da altri paesi produttori di materie prime (in Medio Oriente, Africa a Latino-America), dal Giappone per ragioni diverse, dall’India, dal Pakistan, dai vicini di terra e di mare, e a seguire da tutti gli altri, a seconda degli interessi in gioco.

L’Unione Europea (Ue), agli occhi di Pechino un’entità dai confusi contorni politici e istituzionali, è considerata sul piano geo-strategico una costola dell’impero americano, divisa al suo interno e dominata dall’oligarchia tedesca. L’Ue non è per Pechino un soggetto politico indipendente, ma solo un grande mercato e fonte di tecnologie e capitali. La Germania è la nazione dominante, ma solo sotto il profilo economico e per l’egemonia che esercita sulle istituzioni europee. Gli altri (con la relativa eccezione della Francia) sono visti come paesi gregari, sebbene Pechino, sempre attenta ai propri interessi, riservi la massima cura a ciascuno di essi.

I rapporti Italia-Cina: sul piano politico, le relazioni bilaterali sono prive di asperità e vi è persino convergenza su alcuni dossier importanti come la riforma del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, sebbene oggi per svariate regioni quest’ultimo abbia perso il suo momentum politico. Sui temi caldi per la Cina, quali Taiwan, Tibet, Hong Kong, la questione uigura e i diritti umani, l’Italia ha sempre tenuto la massima cautela, senza ricavarne alcun beneficio. Non va d’altra parte dimenticato che, a parte la diversa sensibilità su diritti civili e rapporti stato/cittadini, frutto di esperienze storiche differenti, l’Italia appartiene a un sistema di alleanze centrato sugli Stati Uniti, per i quali la Cina costituisce lo sfidante più insidioso alla loro egemonia. Anche se Pechino evita di evocarlo negli incontri bilaterali, è per tutti evidente che, qualora le tensioni tra Cina e Stati Uniti dovessero superare una certa soglia, i rispettivi alleati sarebbero tenuti ad allinearsi senza troppi distinguo.

Come ci vede la leadership cinese

Nell’insieme, la Cina vede dunque nell’Italia un paese di medie dimensioni, con un peso politico minimo, subalterna agli interessi strategici americani e a quelli economici delle élite nordeuropee, priva di tecnologie avanzate e alle prese con una profonda crisi di sistema, sebbene disponga tuttora di un mercato interessante che assorbe annualmente beni e servizi cinesi per 32-35 mld di euro.

Sul piano commerciale, l’ingresso cinese nell’Organizzazione Mondiale del Commercio (Omc) nel dicembre 2001 ha segnato la conquista dei ricchi mercati occidentali da parte di Pechino. La ristrutturazione produttiva a livello mondiale, che alla fine del secolo scorso ha accompagnato la seconda globalizzazione, ha prodotto profitti ingenti per le corporazioni occidentali che in quegli anni erano interessate a produrre in Cina per esportare in Europa e Stati Uniti. Tale processo ha però arrecato danni profondi al tessuto industriale di paesi esposti come l’Italia. All’interno dell’Ue ne hanno tratto vantaggio le economie nordeuropee, Germania e satelliti in primis, più terziarizzate e che disponevano di tecnologie avanzate e una moneta (l’euro) per loro fortemente sottovalutata.

Nell’establishment cinese alberga verso il nostro Paese un giudizio che negli incontri con politici italiani è solitamente dissimulato per ragioni di cortesia (il non detto nella tradizione cinese prevale sul pensiero espresso), ma che nasconde meno indulgenza di quanto si possa immaginare.
Nemmeno alla dirigenza cinese (ambienti politici, accademici e del business) sfuggono sul nostro Paese quelle criticità che ogni italiano conosce bene, vale a dire: a) deficit di governance politica, un apparato amministrativo obsoleto, una nazione culturalmente frantumata alle prese con un’economia in crisi strutturale, con elevati tassi di disoccupazione e precarizzazione, flussi incontrollati d’immigrazione, corruzione e criminalità diffuse, servizi sociali in forte affanno; b) l’eurozona (moneta innaturale, gestita da entità extra-nazionali), una gabbia non-democratica, espressione di un deficit di sovranità fiscale e monetaria, tutti fattori che impediscono all’Italia di reperire le risorse necessarie a sviluppare l’economia e creare lavoro per i suoi cittadini; c) un vacuum di politica economica, attribuzione fondamentale di ogni organizzazione statuale, da trent’anni delegata a una Commissione Europea che obbedisce alla legge del più forte; d) una globalizzazione priva di regole che l’economia italiana, esposta sui costi e con limitate capacità d’innovazione, subisce senza reti protettive.

Il tessuto industriale italiano dispone ancora di alcuni segmenti competitivi e tecnologicamente avanzati, sebbene abbia sofferto un pesante arretramento negli ultimi dieci anni (-25% la produzione industriale dal 2008 a oggi), aggravato dall’ulteriore distruzione di posti di lavoro dovuta alla pandemia.
Se si escludono le irrilevanti Irlanda e Finlandia, nel commercio Cina-Europa solo la Germania registra un avanzo annuale con la Cina (19,3 miliardi di euro nel 2019, su un interscambio di 200 miliardi). Per tale ragione Berlino impone all’insieme dell’Unione Europea una “China policy” accomodante, sostanzialmente priva di rivendicazioni, mentre il disavanzo Ue complessivo supera i 164 miliardi di euro. L’attenzione cinese alle nostre rivendicazioni si fa attenta solo nelle rare volte in cui Roma fa sentire a Bruxelles la voce dei suoi legittimi interessi.
Nel commercio bilaterale, 45-47 miliardi di euro, l’Italia soffre il deficit più elevato tra i paesi Ue, dopo l’uscita del Regno Unito. Si tratta di un disavanzo che ha subito un’impennata proprio a partire dal 2001 con l’ingresso di Pechino nell’Omc, passando dai 4 miliardi agli attuali 22/24, traiettoria analoga a quella Ue nel suo insieme, il cui deficit è salito da 30 miliardi di euro nel 2000 ai 164 del 2019.


Secondo i principi del commercio internazionale gli scambi devono tendere all’equilibrio, per evitare tensioni e destabilizzazioni dei sistemi economici. Se l’avanzo tedesco complessivo vale circa 250 miliardi ogni anno, oscillando tra il 7 e il 9% del Pil - mentre secondo la Commissione esso non dovrebbe superare il 6%, ma Berlino fa orecchie da mercante - anche quello di Pechino nei riguardi dell’Ue resta elevato, sebbene in termini di Pil non superi l’1,5%, e andrebbe dunque corretto. Quest’ultimo è certamente il risultato dei bassi costi di produzione, di per sé legittimi, ma anche di varie distorsioni, barriere d’accesso, discriminazioni verso aziende non-cinesi, violazioni dei diritti della proprietà intellettuale, dumping e altro ancora. L’accesso al mercato cinese da parte dei prodotti stranieri (e dunque italiani) trova in Cina ostacoli di natura tariffaria (basati sugli accordi sottoscritti in sede Omc) e non tariffarie, questi ultimi più insidiosi ancora per le piccole imprese. Poiché tuttavia, la politica commerciale dell’Italia è stata delegata, come altri aspetti della nostra economia, alle istituzioni Ue (non-elettive e che rispondono a priorità non-italiane), nessuno si cura di negoziare con la Cina una graduale riduzione del nostro disavanzo, causa indiretta della perdita di tanti posti di lavoro.

In tema di investimenti, quelli italiani in Cina si aggirano intorno ai 15/16 miliardi di euro (i dati sono necessariamente imprecisi, potendo i capitali provenire da paesi terzi o territori off-shore), praticamente tutti green-field, che hanno creato centinaia di migliaia di posti di lavoro. Oggi, anche se qualche impresa italiana mantiene ancora convenienza a spostare la produzione in Cina, il flusso di investimenti italiani in Cina è in via di esaurimento, in ragione dell’incremento del costo del lavoro e dei servizi, di un’imposizione fiscale non più incentivante, della maggiore attenzione cinese alla protezione ambientale, del crescente appeal verso altri paesi emergenti.

Abbiamo ancora risorse da spendere

Gli investimenti cinesi in Italia, intorno ai 13-14 mld di euro, hanno invece puntato su tecnologia e sbocchi di mercato, acquisizioni di società già esistenti, senza creare nuovo lavoro, con qualche eccezione (Huawei a Segrate, il centro design per auto a Torino e altri minori), e sono concentrati in Lombardia, Lazio, Piemonte, Veneto e Trentino-Alto Adige, sui settori tech, manifatturiero ed energetico. Essi sono riconducibili alle seguenti tipologie: a) partecipazioni in aziende quotate (molte blu chips e banche), Atlantia/Autostrade (5%); acquisti sul debito pubblico italiano, che alcuni stimano intorno ai 20/30 mld di euro; si tratta in tal caso di capitali speculativi, precari per definizione; b) investimenti tecnologici: Pirelli, Cifa, Ferretti, Parmeestelisa, Krizia, Benelli, Salov, LFoundry, 35% di Reti Snam/Terna, 40% di Ansaldo Energia e altri ancora; c) qualche investimento greenfield, Huawei a Segrate e centro design auto a Torino; d) squadre di calcio.

Quanto a porti e altre infrastrutture logistiche, negli ultimi 20 anni, l’appeal italiano è risultato del tutto inefficace. Nessun investitore cinese ha scelto un porto italiano per l’ingresso di merci sulla rotta Cina-Europa. Affinché la Penisola possa diventare la porta europea d’ingresso per i prodotti cinesi – ammesso che l’autolesionismo sinofobico italiano lo consenta – sarebbe necessario un inedito salto di qualità, che parta da una pianificazione della portualità italiana, alla luce della quale aprire un dialogo con gli investitori cinesi. Con i porti del Nord Europa, la Cina ha legami di lunga data, improntati alla massima efficienza e creazione di valore. L’Europa settentrionale è la regione europea che commercia di più con la Cina, che amministra economie di scala e gestisce i maggiori flussi di import-export. Solo attraverso un processo di forte efficientamento, di cui invero non si vede traccia, l’Italia potrebbe recuperare parte di questi flussi, sfruttando la vicinanza geografica all’Europea centro-meridionale e orientale, che sulla carta verrebbe servita più velocemente e a prezzi più convenienti dai porti italiani. Se oggi questo non avviene (nel Mediterraneo i cinesi hanno preferito il Pireo), occorrerebbe comprenderne le ragioni e cercare di invertire la rotta, tenendo anche presente che i mercati europei sono oggi tendenzialmente saturi e che l’Europa è un continente a bassa crescita, con costi produttivi elevati che attira acquisizioni e non investimenti greenfield. Non è un caso se molte imprese (anche italiane), preferiscono investire al di fuori dell’Europa, e in particolare fuori dall’eurozona.


Le asimmetrie tra Italia e Cina presentano anche altri profili. Per trent’anni il trasferimento a senso unico di know how e tecnologia italiana ha assicurato un tangibile contributo alla crescita cinese. A questo devono poi aggiungersi i finanziamenti di Cooperazione allo Sviluppo per 2,3 miliardi di euro e quelli del settore ambientale per 320 milioni, mentre sul piano politico, come menzionato, Roma non ha mai fatto mancare la sua attenzione sui temi sensibili per la leadership cinese. Eppure, la Cina mostra scarsa disponibilità a riconoscere il valore di questi crediti che, sommati a un disavanzo elevato e strutturale, rendono legittima la richiesta italiana di un graduale riequilibrio.

Sull’arena competitiva mondiale i sistemi contano più dei singoli, individui o aziende, anche quando questi ultimi sono altamente competitivi. Il successo è figlio dell’efficienza d’insieme, amministrazioni pubbliche integre, capaci e reattive, norme di legge comprensibili e puntualmente applicate, codici sanzionatori immediati e proporzionali. Non è un caso che siano le stesse caratteristiche che non solo la Cina prende in esame nella scelta dei partner industriali, scientifici e culturali, caratteristiche che alcuni paesi possiedono e altri no. È su tali aspetti che il Governo italiano è chiamato a riflettere e agire. Al riguardo, nonostante il desiderio di chiudere queste poche righe con un’impronta ottimistica, saremmo tentati di essere realisti, e dunque pessimisti. Il sostanzioso investimento cinese che a fine estate dovrebbe concretarsi a Reggio Emilia scuote invece la corazza negativa e lascia sperare che l’Italia abbia ancora qualche risorsa da spendere, soprattutto se operazioni simile potessero ripetersi altrove e/o o in altri settori affinché, insieme al recupero della sovranità economica, sia di nuovo possibile sperare in un futuro migliore per i nostri figli e nipoti.